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Separare la previdenza dall’assistenza @WRicciardi @drsilenzi

Il dibattito sulla sostenibilità del sistema di welfare italiano (sanità, previdenza, assistenza) è guidato da ideologia, strumentalizzazioni e notizie verosimili, ma false. In questo dibattito, il Presidente dell’INPS Boeri spicca per non fare il suo lavoro, ma per assumere posizioni politiche che dovrebbero essere del Governo. La separazione economico-finanziaria del sistema pensionistico da quello di assistenza sociale dovrebbe essere una priorità per uno Stato che non fosse dedito, come il nostro, al gioco delle tre carte!

La previdenza dovrebbe essere sostenuta dai contributi: essa costituisce ancora, almeno formalmente, una retribuzione differita. L’assistenza sociale dovrebbe essere sostenuta dalla tassazione ordinaria alla quale partecipano i cittadini in modo progressivo al crescere del loro reddito.

La maggior parte delle prestazioni dell’INPS sono di tipo assistenziale e sono economicamente sostenute da trasferimenti insufficienti dello Stato e abbondantemente integrate dai contributi che lavoratori e aziende pagano per sostenere la previdenza. Le stime sulla sostenibilità futura del sistema pensionistico vengono “affogate” nel calderone che include l’assistenza. Il risultato è che si presenta come insostenibile il sistema previdenziale, mentre la componente critica è quella assistenziale!

Di qui nasce il battage pubblicitario sulle pensioni d’oro (in un’audizione alla Camera del Deputati, il Commissario alla Spending Review Gutgeld ha affermato che le pensioni d’oro sono quelle superiori ai 2000-2500 euro lordi mensili!!!).

Un gruppo di pensionati sta agendo: https://www.facebook.com/pensionati.uniti?fref=gs&hc_ref=ARSyPNgW2HHQd2x-LuXKIOAUy50QAenWyfZa-rsvZYOF-1McW6c6VlthM9kyc84aXWw&dti=334901093612872&hc_location=group

Lorenzo Stevanato, già magistrato amministrativo, gestisce un’interessante pagina Facebook: https://www.facebook.com/groups/334901093612872/permalink/370881966681451/

Riporto di seguito il suo ultimo post del 30 novembre nel quale illustra una proposta di legge di iniziativa popolare per separare appunto previdenza da assistenza. Dopo le elezioni politiche le azioni si faranno battenti!

Eccolo!

“Parallelamente alla petizione, con cui si chiede che previdenza ed assistenza siano effettivamente separate, per le ovvie ragioni già esposte, si è pensato anche ad un progetto di legge di iniziativa popolare.
Potrebbe essere questo:

PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE RECANTE “ISTITUZIONE DELL’AGENZIA NAZIONALE PER IL WELFARE ASSISTENZIALE”

Articolo unico
In attuazione dell’art. 38, comma 4, della Costituzione è istituita l’agenzia nazionale per il welfare assistenziale (ANWA), dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e sottoposta alla vigilanza del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con il compito di assumere tutte le funzioni economiche assistenziali svolte dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).
In particolare l’ANWA ha il compito di:
a) erogare le prestazioni elencate dal comma 3 dell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, e successive modificazioni;
b) pagare tutte le pensioni totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale;
c) in generale, erogare tutte le prestazioni economiche assistenziali in favore di cittadini non abbienti e/o bisognosi, previste dalla legge;
d) esprimere pareri ed avanzare proposte al Governo in materia di prestazioni assistenziali economiche;
e) svolgere l’attività di controllo dei requisiti che danno titolo alle anzidette prestazioni.
Con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, da emanare nel termine di novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono disciplinati l’organizzazione ed il funzionamento dell’agenzia, in modo da realizzare il trasferimento ad essa del personale e delle strutture materiali che l’INPS destina alle funzioni elencate dall’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88.
Il direttore dell’agenzia è nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, tra esperti di riconosciuta competenza in materia di organizzazione e programmazione del welfare, anche estranei all’amministrazione.
Il direttore è assunto con contratto di diritto privato di durata quinquennale, non rinnovabile.
L’agenzia si avvale di personale trasferito dall’INPS. La dotazione organica è fissata con il decreto indicato al precedente comma 3.
La dotazione finanziaria dell’agenzia è determinata dai trasferimenti disposti dallo Stato e fissati annualmente con la legge di bilancio, nonché dai contributi dei datori di lavoro relativamente alle pensioni assistite ed ai trattamenti di integrazione salariale.
Il Governo è delegato ad emanare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo di riordino dei contenuti dell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, con conseguente abrogazione dell’art. 37 stesso, attenendosi al principio e criterio direttivo secondo cui la separazione di assistenza e previdenza sia completamente attuata ed all’INPS residui la sola funzione previdenziale, mentre all’ANWA sia attribuita interamente la funzione assistenziale.

Questa la relazione accompagnatoria:

RELAZIONE ALLA PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE RECANTE “ISTITUZIONE DELL’AGENZIA NAZIONALE PER IL WELFARE ASSISTENZIALE”

Con l’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, è stato introdotto il principio di separazione, nel bilancio dell’INPS, del sistema della previdenza da quello dell’assistenza, mediante l’istituzione di una gestione dei trattamenti assistenziali (GIAS) finanziato dalla fiscalità generale.
La GIAS ricomprende prestazioni esclusivamente assistenziali (come le pensioni di invalidità) ma anche prestazioni a carattere misto, cioè previdenziali coperte solo parzialmente dai contributi versati, come ad esempio le pensioni integrate al minimo.
L’esigenza della separazione nasceva e nasce dal fatto che entrambe le funzioni sono concentrate in un unico ente, l’INPS, il più grande istituto previdenziale europeo, che tuttavia ha nel suo bilancio anche una spesa assistenziale di oltre trenta miliardi di euro.
Il principio di separazione è certamente indispensabile per garantire trasparenza e chiarezza del bilancio ed evitare la confusione tra i due diversi sistemi.
In realtà, la commistione tra assistenza e previdenza non è stata affatto eliminata, nemmeno dopo l’introduzione dell’art. 37 della legge n. 88 del 1989.
Invero, nel bilancio dell’INPS continuano a circolare cifre poco chiare e, non di rado, le spese assistenziali sono contenute all’interno di voci previdenziali, e viceversa.
Ciò significa che i contributi che vengono versati per garantire in futuro i trattamenti pensionistici finiscono in quest’unico bilancio in cui L’INPS si destreggia per poter erogare anche le prestazioni assistenziali.
Da ciò deriva, inevitabilmente, l’assorbimento di risorse contributive nelle erogazioni assistenziali e sociali.
L’INPS, tuttavia, ha il precipuo compito di garantire che le prestazioni previdenziali siano corrisposte a coloro che hanno versato i relativi contributi confidando nella loro funzione assicurativa e che, quindi, tali contributi siano esclusivamente a ciò destinati; risulta invece del tutto improprio che tali contribuzioni finiscano per essere destinate anche a finanziare prestazioni assistenziali.
Le spese di carattere assistenziale (anche quando si tratti degli incrementi pensionistici non coperti dai contributi, come le integrazioni al minimo) vanno invece poste esclusivamente a carico della fiscalità generale, senza che si attinga ai contributi versati dagli aventi titolo alle prestazioni previdenziali.
Se così non fosse, il principio di uguaglianza fissato dall’art. 3 della Costituzione verrebbe violato, in quanto le prestazioni assistenziali graverebbero ingiustamente su una platea limitata di soggetti, e cioè di coloro che hanno versato e versano contributi per garantirsi il trattamento
previdenziale della vecchiaia.
Inoltre, un tale risultato si rivela altresì in contrasto con altri principi di rango costituzionale, come quello che il trattamento di quiescenza è configurabile quale retribuzione differita, secondo il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) nonché con il principio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.) (cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010).
I trattamenti pensionistici rappresentano la “restituzione” assicurativa, sotto forma di assegno mensile, di contributi versati e via via incamerati dall’ente erogatore durante la vita lavorativa. A questa “restituzione” assicurativa il pensionato acquisisce un vero e proprio diritto che sarebbe violato se quei contributi venissero (come vengono) dirottati per finanziare anche le erogazioni assistenziali.
Il fenomeno è di entità niente affatto irrilevante.
Si pensi che circa 4 milioni di soggetti ricevono pensioni assistenziali (assegni sociali, di invalidità, etc.) e quasi 5 milioni di soggetti godono delle integrazioni al minimo e delle maggiorazioni sociali, per un totale di circa 9 milioni di beneficiari che rappresentano circa la metà di tutti i pensionati.
Nell’opacità del bilancio INPS onnicomprensivo queste pensioni finiscono per essere parzialmente “pagate” anche da coloro che hanno versato e versano i contributi assicurativi per la propria pensione e ciò, rendendo insostenibile il sistema, ne minaccia paradossalmente la corresponsione.
Questo purtroppo è ciò che avviene quando vi è commistione tra le due funzioni e tra le relative poste di bilancio.
Occorre dunque che le prestazioni di carattere assistenziale (come le integrazioni al minimo, le maggiorazioni sociali e le pensioni di invalidità) non vengano mai confuse nella spesa pensionistica.
Vi è un’ulteriore decisiva ragione che dovrebbe spingere a realizzare la separazione.
Invero, la spesa effettiva per pensioni, al netto delle tasse e delle ingenti somme (oltre 30 miliardi di euro) della gestione assistenziale GIAS, è interamente coperta dalle entrate contributive, a dimostrazione che con le riforme previdenziali via via attuate, fino alla riforma Fornero, il sistema previdenziale italiano non è affatto in passivo ma è perfettamente sostenibile.
Il sistema pensionistico nel nostro Paese poteva definirsi “non sostenibile”, a causa dell’invecchiamento della popolazione e della la bassa età effettiva di uscita dal mercato del lavoro, prima delle riforme Dini e Fornero, ma non certo dopo tali riforme.
Ed infatti, la spesa pensionistica “pura” – detratta anche la tassazione che grava sulle pensioni – con la separazione dalla spesa assistenziale scenderebbe al 10% del PIL, in linea con quella degli altri Paesi comunitari.
Invece, nel confronto con gli altri Paesi europei l’Italia si posiziona, a causa dell’anzidetta commistione, agli ultimi posti delle classifiche OCSE ed Eurostat in tema di spesa pensionistica, con tutte le relative conseguenze negative in termini, non solo di immagine, ma anche di “attenzione” comunitaria alle dinamiche fuori controllo della spesa pubblica ed al bilancio dello Stato, già gravemente zavorrato dal debito pubblico.
Appare quindi opportuno che si proceda ad una riforma radicale della gestione assistenziale svolta dall’INPS.
Per ottenere ciò, è anzitutto necessario che tale funzione sia coerentemente sottratta all’INPS, il quale deve esclusivamente svolgere la funzione previdenziale assicurativa che per legge gli appartiene, e che le erogazioni assistenziali siano invece affidate ad un organismo diverso, convenientemente attrezzato ad occuparsene in maniera equa ed efficace.
La presente proposta di legge popolare è dunque intesa all’istituzione di un’agenzia, posta sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, alla quale saranno affidate le prestazioni attualmente elencate nell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88 e ss. mm.
Conseguentemente, l’agenzia avrà altresì funzioni consultive e propositive nonché di controllo circa l’effettiva sussistenza dei requisiti che danno titolo, per i beneficiari, all’erogazione delle prestazioni economiche assistenziali.
Nello stesso tempo, la presente proposta di legge popolare prevede di conferire la delega legislativa al Governo affinché provveda al riordino delle varie voci della GIAS, in modo che i dati della spesa previdenziale e di quella assistenziale divengano certi e trasparenti, passaggio questo prioritario per qualsiasi intervento legislativo di riforma del sistema previdenziale che si voglia consapevolmente intraprendere.”

 

Governare. E non sapere cosa accadrà di @vitalbaa su newslist.it di @masechi DA LEGGERE!

Seconda “puntata” dell’interessante analisi di Vitalba Azzolini: la tecnica e la politica non si incrociano e la misurazione è un’opinione … tutto conduce alla creazione all’italiana del suddito inconsapevole.

La List di Mario Sechi si arricchisce www.newslist.it

In una “puntata” precedente (https://carlofavaretti.wordpress.com/2017/09/17/fatto-analisi-impatto-di-vitalbaa-su-newslist-it-di-masechi-da-leggere/) qui su List ho provato a spiegare la “cultura” degli impatti: vale a dire quel metodo di regolamentazione che impone al governo e ad altre autorità di definire con trasparenza gli obiettivi perseguiti, di valutare ex ante comparativamente gli effetti di diverse opzioni normative (inclusa quella di non intervento), di fissare indicatori di risultato per vagliare ex post se quella prescelta è stata efficace, nonché di redigere un’apposita relazione con tali contenuti. Non è solo un metodo di better regulation, ma anche il modo per inchiodare i governanti alle responsabilità conseguenti ai propri annunci, vincolandoli a rendicontarne i risultati. Sarà per questo che AIR e VIR (analisi e verifica di impatto della regolamentazione) piacciono poco a politici e supporter, nonostante siano obbligatorie ex lege da anni. Detto ciò, può essere utile esporre i settori in cui l’analisi va fatta, verificando se e come “funzioni”: insomma, una verifica di impatto sull’analisi di impatto, e non è un gioco di parole.

Ai sensi di legge, la valutazione ex ante degli impatti va svolta secondo direttrici ben precise: se la futura normativa ha fra i suoi destinatari piccole e medie imprese, ne vanno analizzati gli eventuali effetti distorsivi o sproporzionati rispetto alle imprese di più grandi dimensioni; inoltre, devono essere misurati eventuali nuovi adempimenti a carico di cittadini e imprese; serve altresì stimare l’incidenza delle diverse opzioni di regolazione sulle dinamiche concorrenziali del mercato, scegliendo quella che le sacrifica meno; in caso di recepimento di normative comunitarie, occorre verificare che non siano introdotti obblighi superiori a quelli richiesti da tali normative (c.d. gold-plating). E’ importante poi valutare preventivamente anche le modalità attuative – strumenti, risorse e mezzi – dell’intervento di regolamentazione. Questo è quanto espressamente (e teoricamente) prescritto. Ma i legislatori ne tengono realmente conto?

Partiamo dal primo punto. È’ necessario esaminare che nuove disposizioni non impongano pesi burocratici gravanti in misura maggiore sulle piccole e medie imprese, poiché “l’evidenza empirica mostra in modo inequivocabile come gli oneri (…) legati all’adempimento di una norma siano, in proporzione, molto più elevati per le PMI rispetto alle imprese di taglia media e grande” (Formez PA). Al riguardo, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato osserva che “il cammino intrapreso verso l’adozione di regolazioni che ‘pensano in piccolo’ potrà produrre risultati positivi per (…) le piccole e medie imprese, a condizione che i modelli di analisi d’impatto vengano attuati in modo concreto e sostanziale”. E, infatti, l’UE ha predisposto da tempo un test (c.d. test PMI) utile a stimare gli impatti – appunto – degli adempimenti amministrativi sulle imprese di dimensioni minori. Ma di questo test non sembra esservi traccia nelle relazioni AIR nazionali. Le conseguenze sono palesi: un recente studio di Assolombarda in tema di oneri amministrativi nei settori ambiente, edilizia, fisco ecc. dimostra che i costi delle relative procedure (in termini di percentuale sul fatturato e di ore per addetto) continuano a incidere più sulle PMI che sulle grandi imprese. E di studi che attestano queste evidenze ve ne sono comunque molti altri.

Circa il secondo punto, cioè la stima – in sede di elaborazione di nuove normative – degli oneri burocratici gravanti su cittadini e imprese (con quantificazione dei relativi costi), essa è funzionale al c.d. budget regolatorio, previsto ex lege dal 2012. Si tratta di un meccanismo di compensazione c.d. one-in-one-out, per cui non possono essere introdotti nuovi oneri amministrativi senza contestualmente ridurne o eliminarne altri. Questo principio viene osservato? La risposta la fornisce il Consiglio di Stato, il quale pochi mesi fa ha rilevato che, mentre in altri Paesi si stanno sfoltendo molti pesi, elaborando sistemi one-in-two-out o addirittura one-in-three-out, la regola in Italia è pressoché ignorata. Rimando a quanto ho scritto altrove, aggiungendo che, nonostante recenti misure tese a semplificazioni varie, permane “una grave incertezza sul regime amministrativo delle singole attività, sulla stabilità dei titoli abilitativi (impliciti o presunti), sui tempi di definizione delle procedure” (C. Deodato), nonché su molto altro.

Il terzo punto è il full competition assessment, cioè la quantificazione degli impatti concorrenziali, utile a evitare ostacoli ingiustificati all’esercizio delle attività economiche: ma chi l’ha visto? E’ lo stesso Nucleo AIR presso la presidenza del Consiglio ad attestarlo: in sede di elaborazione di nuove regolamentazioni, ci si limita a svolgere “considerazioni apodittiche sull’intervento come ausilio alla competitività e nessuna considerazione specifica laddove l’intervento limiti o distorca il mercato”. Serve altro per dimostrare il senso (mancante) dei regolatori nazionali per la competizione fra privati? Forse sì: ad esempio, ricordare il non lusinghiero 54° posto che l’Italia occupa attualmente nell’Indice Libertà Economiche elaborato dal Fraser Institute (era al 24° posto nel 2000); o la circostanza che per partorire la prima (rachitica) normativa sulla concorrenza sono serviti 8 anni dalla legge istitutiva e circa 900 giorni di discussione.

Per quanto poi attiene al divieto di gold-plating, nelle relazioni AIR i regolatori dovrebbero dare conto del fatto che, nella trasposizione di discipline comunitarie nell’ordinamento interno, non hanno immotivatamente previsto oneri, requisiti, procedure ecc. più gravosi di quelli contenuti nelle discipline medesime. Questo limite viene rispettato? I dati empirici sono chiari: “il 32% (o 3,5% del PIL) dei costi amministrativi di provenienza europea a carico di un’impresa sono da ascriversi, per la stessa Commissione, all’inefficace recepimento del diritto europeo negli Stati membri, e il 4% di essi al solo gold-plating” (E. Ojetti). Inoltre, basta leggere qualche relazione di analisi di impatto nazionale per accertare che non viene fatto un esame attento e puntuale sul gold-plating e che, pertanto, il rischio di violazione è molto alto.

Infine, non mi dilungherò sulla valutazione di strumenti e modalità di implementazione di nuove discipline, rimandando a quanto scritto altrove: in sintesi, come può pensarsi che qualcuno la svolga ex ante, se in Italia non esiste un’autorità preposta a verificare ex post l’effettiva attuazione di “politiche” e relative normative? Né mi dilungherò su analisi di impatto riguardanti profili quali il genere, la salute ecc., svolte in altri Paesi: a cosa servirebbe, se nel nostro le AIR non affrontano neanche quei pochi profili già previsti? A questo punto concludo. Le domande retoriche stanno diventando un po’ troppe.

Fatto. Analisi. Impatto di @vitalbaa su newslist.it di @masechi DA LEGGERE!

Come si dovrebbe legiferare e regolamentare in un paese civile, applicando continuamente AIR (analisi di impatto della regolamentazione) e VIR (verifica di impatto della regolamentazione) prima e dopo il processo decisionale.

L’articolo è l’ulteriore dimostrazione dell’interesse della newslist.it del grande Mario Sechi

Una vita sregolata

di Vitalba Azzollini

Il sottotitolo di questa newsletter  – “Fatto. Analisi. Impatto” (ma anche “Agenda”, come dirò) – è un invito a nozze per chi si occupa di regolamentazione. Quelle tre parole sono, al contempo, presupposto e spinta per l’evoluzione dell’ordinamento. Mi spiego meglio. Il mutamento della realtà è costante, il diritto deve tenere lo stesso ritmo: l’analisi dei fatti, quindi del contesto, così come quella degli impatti delle norme che intervengono sui fatti, è imprescindibile per ogni buon regolatore. Può aggiungersi anche altro. La regolamentazione è un costo, poiché impone oneri e limiti ai soggetti privati, spese di elaborazione ed attuazione a quelli pubblici. Un rule maker realmente accountable deve essere in grado di giustificare in modo trasparente che, tra le diverse opzioni normative a sua disposizione, ha scelto quella più efficace in termini di costi e benefici, dati i fini perseguiti. La scarsa attenzione a questo processo di valutazione ponderata ha determinato nel tempo discipline sovrabbondanti, inutili o poco coerenti. E i conseguenti effetti negativi su produttività, concorrenza, competitività del sistema economico nazionale sono evidenti (e attestati da studi sull’attrattività di diversi Paesi).

Dunque, “Fatto. Analisi. Impatto” è, in sintesi, il metodo che i regolatori nazionali – specificamente governo e autorità “tecniche” – dovrebbero  seguire (il condizionale è d’obbligo, come spiegherò oltre), non foss’altro perché è da anni un obbligo di legge. Come si attua in concreto questo metodo? Si attua, da un lato, mediante l’analisi di impatto della regolamentazione (AIR), strumento che serve a definire esattamente il problema da risolvere; individuare gli obiettivi perseguiti e costruire indicatori di carattere quantitativo che consentano di verificarne il grado di raggiungimento; consultare gli stakeholder; esaminare le varie opzioni di intervento (inclusa la cd. “opzione zero”, ossia il non intervento); comparare i vantaggi e gli svantaggi di ognuna di tali opzioni, considerandone gli effetti concorrenziali sul mercato e quantificandone il “prezzo” per cittadini e imprese; delineare un attendibile scenario del futuro funzionamento dell’opzione selezionata, soprattutto dei suoi possibili effetti inattesi o indesiderati, sulla base dei dati disponibili al momento della sua scelta. Dall’altro lato, il metodo citato si attua mediante la verifica di impatto della regolamentazione (VIR), che serve per vagliare il reale grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati, misurato sulla base degli indicatori predefiniti; “manutenere” le leggi vigenti, onde permetterne nel tempo la correzione a seguito di eventuali disfunzioni o l’aggiornamento in relazione a sopravvenuti mutamenti fattuali e giuridici; abrogare le norme non più necessarie.

Ricapitolando, il metodo riassunto in “Fatto. Analisi. Impatto” – valutazione ex ante dell’adeguatezza della regolamentazione ed ex postdella sua concreta e perdurante efficacia – serve non solo a tenere l’ordinamento al passo di una realtà in costante trasformazione e a imporre ai regolatori di giustificare le proprie scelte in maniera trasparente, ma a garantire il buon funzionamento delle leggi. Quindi, è un metodo idoneo ad assicurare una regolamentazione di qualità. Come il Consiglio di Stato ha evidenziato in un recente parere – ove riassume i numerosi interventi in tema di better regulation da parte del legislatore nazionale, nonché dell’Unione Europea e dell’OCSE – “una norma ‘scritta bene’, che rispetti i requisiti di ‘qualità’ (…) in termini di consapevolezza dell’impatto su cittadini e imprese, reca un beneficio ulteriore – e costi sociali minori – rispetto ai benefici che il suo contenuto ‘di merito’ già prevede”. In altre parole, la valutazione degli impatti, garantendo la qualità delle regole, offre un “valore aggiunto” economicamente stimabile in termini di “maggiore efficacia, efficienza, sostenibilità e ‘durabilità’ delle normative”.

“Fatto. Analisi. Impatto” è il metodo che i regolatori nazionali dovrebbero seguire, dicevo usando scientemente il condizionale. Ne spiego la ragione. Come rilevato sempre dal Consiglio di Stato – e come si legge puntualmente nella Relazione sullo stato di attuazione della analisi di impatto della regolamentazione, presentata ogni anno dal Governo al Parlamento – le relazioni AIR sono il più delle volte poco approfondite, prive degli indicatori quantitativi utili a consentire la verifica dell’effettivo impatto delle norme; mancanti dell’analisi economica delle opzioni alternative di regolamentazione e lacunose riguardo all’opzione prescelta; carenti nell’analisi di “fattibilità”, cioè incuranti della successiva fase di attuazione, anche in termini di stima delle risorse – finanziarie e umane – necessarie. Quanto alle VIR, affermare che non ve ne sono molti esempi sarebbe un eufemismo. Questa è la foto del “metodo” – anche per i fallimenti serve metodo – con cui i regolatori nazionali hanno nel tempo affossato ogni italica aspirazione di better regulation. Peraltro, svuotando di significato AIR e VIR, hanno costantemente disatteso anche il c.d. regulatory budget (che impone di non introdurre nuovi oneri amministrativi senza averne prima eliminati altri), reso le consultazioni pubbliche dei meri pro-forma, ossia atti di politica fittizia, e molto altro. Ma qui mi fermo.

“Fatto. Analisi. Impatto” è il metodo con cui, in questa newsletter, partendo dai fatti esaminati, vengono tratte conclusioni, fondandole su analisi di dati e impatti svolte trasparentemente. E trasparenza è la caratteristica ineludibile di ognuno degli strumenti di better regulationsopra citati, nonché la chiave di volta per comprendere il loro insufficiente utilizzo, di AIR e VIR soprattutto. La trasparenza delle decisioni di regolazione – cioè la trasparenza delle valutazioni degli impatti, anche attraverso la loro pubblicazione su siti istituzionali – metterebbe i governanti nella condizione di dover rendere conto del proprio operato, consentendo all’elettorato di giudicarli con dati di fatto. Detto in termini più banali, ne disvelerebbe i poco realistici annunci di riforme mirabolanti, così come il mancato ottenimento di effetti previsti con noncurante leggerezza. Dunque, gli strumenti che garantiscono la qualità della regolazione, nonché la trasparenza del processo di rule making, contribuirebbero alla responsabilizzazione democratica dei rule makers stessi, date le conseguenze reputazionali (e soprattutto elettorali) cui potrebbero dar luogo. E’ più chiaro ora il perché in Italia tali strumenti non vengono usati – anzi, sono spesso demonizzati da politici e supporter – con la conseguenza che le leggi sono fatte male e operano ancora peggio?

Dimenticavo: nel sottotitolo di questa newsletter vi è anche la parola “Agenda”, cioè il “da farsi”, e ai fini di quanto detto sopra conta anche quella. La trasparente programmazione dell’attività normativa e, quindi, l’elenco delle iniziative di regolamentazione previste in un arco temporale preciso – con pubblicazione sui siti web istituzionali anche dei motivi per cui il programma non viene eventualmente rispettato – rappresenterebbe un impegno, la cui violazione nuocerebbe alla credibilità di chi l’ha assunto.

“Fatto. Analisi. Impatto. Agenda”. Così si chiude il cerchio.

Chi è l’autore. Vitalba Azzollini, giurista. Lavora presso un’Autorità di vigilanza. Scrive in tema di diritto su riviste on line (tra le altre, La Voce e Noise fron Amerika), blog (Phastidio e Istituto Bruno Leoni) e giornali. Autrice di paper per l’Istituto Bruno Leoni.

HTA in Italia: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà

Il 24 ottobre scorso sono stato invitato da Giovanni Morana, dinamico direttore della radiologia dell’ospedale di Treviso, ad un convegno sul tema della TAC Dual Energy. Il programma prevedeva una parte dedicata a questa interessante tecnologia ancora in fase di sviluppo e ricerca e una dedicata all’HTA.

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L’incontro si è tenuto all’Ateneo Veneto, una fondazione istituita da Napoleone dopo il disfacimento della Serenissima Repubblica di Venezia, in uno splendido palazzo a fianco del Gran Teatro La Fenice.

Per un accidente della storia, il 9 ottobre 1996, nella stessa sede avevo organizzato un workshop, alla presenza dei politici e direttori generali della aziende sanitarie del tempo, dal titolo: “Razionamento o razionalizzazione dell’assistenza sanitaria – il ruolo dell’HTA”, starring Renaldo N. Battista al quale il collega direttore generale di Venezia (il compianto Carlo Crepas) aveva tributato gli onori che la Serenissima Repubblica tributava ai Capi di Stato e agli Ambasciatori in visita a Venezia: il corteo in barca lungo il Canal Grande.

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L’invito di Giovanni Morana ha suscitato in me due sentimenti: il piacere di discutere oggi con i clinici (italiani, stranieri e un brillante giovane collega italiano che lavora a Charleston, Carlo De Cecco) e i produttori di tecnologia i metodi e le opportunità offerte dall’HTA; l’amarezza di toccare con mano la lentezza con la quale in questi vent’anni l’HTA si è diffusa in Italia!

Quanta strada ancora da percorrere! Se smettessimo di buttarci a pesce sulle cose urgenti e ci occupassimo un po’ di più delle cose importanti (De Gaulle) …..!!!

Il XXI secolo non ci ha portato ancora superare lo storicismo gramsciano: “Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”. (Q28, III)

Anzi…..

 

Terremoto e paradossi economici @WRicciardi @drsilenzi @redhenry88

Titolo su Milano Finanza: “Il paradosso del terremoto: le spese per la ricostruzione non incideranno sul deficit e daranno una mano al pil”. E’ l’articolo più interessante e utile pubblicato sui quotidiani. Il passaggio chiave è questo: “La contabilità della ricostruzione ha a che fare con le disposizioni del nuovo articolo 81 della Costituzione, in cui si prevede la deroga all’obbligo del pareggio di bilancio, facendo dunque ricorso all’ indebitamento, solo quando si debbano fronteggiare un ciclo economico o circostanze eccezionali. Tra queste ultime, sono espressamente considerate le gravi calamità naturali. Spetterà al Parlamento, con una conforme deliberazione di Camera e Senato assunta a maggioranza dei rispettivi componenti, dichiarare che si versa in una delle citate situazioni. Anche il Fiscal compact, ma in maniera più generica, considera due circostanze eccezionali che consentono di derogare all’ obbligo di pervenire al pareggio strutturale del bilancio: si tratta degli “eventi inconsueti non soggetti al controllo della parte contraente interessata che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione”, e quindi nel nostro caso delle gravi calamità naturali. La deviazione temporanea è ammessa, purché non comprometta la sostenibilità del bilancio a medio termine. Nel caso di gravi calamità si attiva la clausola di flessibilità che consente di peggiorare il deficit congiunturale, ma si deve trattare infatti di spese una tantum, che si esauriscono con la soluzione del problema insorto. Tutte le spese pubbliche e le sovvenzioni concesse ai privati a seguito di una calamità naturale concorrono a far aumentare il prodotto, dacché mobilitano risorse materiali e umane che altrimenti sarebbero rimaste inerti. A differenza di qualsiasi investimento, o altra spesa pubblica, di questi interventi non si tiene conto ai fini del rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali sul pareggio di bilancio. La considerazione è ancora più amara se si pensa che le spese edilizie volte alla messa in sicurezza a fini antisismici, sia che derivino da spese pubbliche dirette, sia che dipendano da detrazioni di imposta a favore dei privati che le effettuino, non hanno lo stesso trattamento di favore”. Sì, è un paradosso.

Mario Sechi, Il Foglio List, 25 agosto 2016

Direct costs of inequalities in health care utilization in Germany 1994 to 2009: a top-down projection

Lars Eric Kroll and Thomas Lampert

http://bit.ly/11lFlYS

Background

Social inequalities in health are a characteristic of almost all European Welfare States. It has been estimated, that this is associated with annual costs that amount to approximately 9% of total member state GDP. We investigated the influence of inequalities in German health care utilization on direct medical costs.

Methods

We used longitudinal data from a representative panel study (German Socio-Economic Panel Study) covering 1994 to 2010. The sample consisted of respondents aged 18 years or older. We used additional data from the German Health Interview and Examination Survey for Children and Adolescents, conducted between 2003 and 2006, to report utilization for male and female participants aged from 0 to 17 years. We analyzed inequalities in health care using negative binomial regression models and top-down cost estimates.

Results

Men in the lowest income group (less than 60% of median income) had a 1.3-fold (95% CI: 1.2-1.4) increased number of doctor visits and a 2.2-fold (95% CI: 1.9-2.6) increased number of hospital days per year, when compared with the highest income group; the corresponding differences were 1.1 (95% CI: 1.0-1.1) and 1.3 (95% CI: 1.2-1.5) for women. Depending on the underlying scenario used, direct costs for health care due to health inequalities were increased by approximately 2 billion to 25 billion euros per year. The best case scenario (the whole population is as healthy and uses an equivalent amount of resources as the well-off) would have hypothetically reduced the costs of health care by 16 to 25 billion euros per year.

Conclusions

Our findings indicate that inequalities and inequities in health care utilization exist in Germany, with respect to income position, and are associated with considerable direct costs. Additional research is needed to analyze the indirect costs of health inequalities and to replicate the current findings using different methodologies.

The complete article is available as a provisional PDF. The fully formatted PDF and HTML versions are in production.

Doing what’s right for patients demands a culture change @muirgray @Medici_Manager @pash22 @helenbevan

We are pleased to announce the dates of our 2013 Lown Conference:
From Avoidable Care to Right Care 

For more information on the 2013 conference, please visit our website:
http://lowninstitute.org/project/2013-lown-conference/

2013 LOWN CONFERENCE: FROM AVOIDABLE CARE TO RIGHT CARE

June 24, 2013   Avoidable Care Admin   

This year’s Lown Conference, From Avoidable Care to Right Care, will take place on December 3-4, 2013 in Boston, MA.

The 2013 invitation only conference will gather clinicians, patient advocates, and civic leaders to deepen our mutual understanding of the cultural, scientific, and ethical issues surrounding the overuse of medical services.

Attendees will leave this meeting with priorities for addressing this pervasive problem, and collaborators who are prepared to begin building bridges to the right care in their communities.

Major themes at this year’s event:

  • fostering a new kind of conversation among clinicians, patients, and civil society
  • envisioning health and health care 25 years from now
  • the global epidemic of overuse

Speakers include:

  • Don Berwick, MD, MPH, Former Administrator, Centers for Medicare and Medicaid Services (invited)
  • Katy Butler, Author of Knocking on Heaven’s Door
  • Bernard Lown, MD, Professor Emeritus, Harvard School of Public Health; Senior Physician (ret.), Brigham and Women’s Hospital, Boston
  • Richard Smith, MD, Former Editor BMJ
  • Rabbi Richard Address, D.Min, Senior Rabbi, Congregation Mkor Shalom

Our working groups for Medical Education, Community Engagement, International Collaboration, and Setting the Research Agenda will convene for a working session on December 5, 2013 following the conference. If you are interested in participating on one of these working groups, please email us for more information atinfo@lowninstitute.org.

For more information on the conference, including how to register, please visit the Lown Institute website at www.lowninstitute.org.

More Treatments Equal Better Care? @Medici_Manager @pash22 @helenbevan

by

American HealthScare : 

How the healthcare industry’s scare tactics have screwed up our economy — and our future http://bit.ly/18TFCaf

There are multiple lines of evidence that doing more things to patients doesn’t always result in better health. I summarize a few examples here.

Dartmouth Studies

Researchers at Dartmouth University examined the relationship between medical resources used and the resulting health outcomes in people nearing the end of their lives in two California regions, Los Angeles and Sacramento.

In Los Angeles, the patients used 61% more hospital beds, 128% more intensive care unit (ICU) beds, and 89% more physician labor in the management of chronically ill patients during the last two years of life compared to Sacramento. In spite of this intense use of medical resources, the quality of care for patients with heart attacks, heart failure, and pneumonia was worse in Los Angeles. Patients did not enjoy this aggressive care either. Patients rated 57% of Los Angeles hospitals as below average compared to 13% of Sacramento hospitals.

What are the cost implications of the overly aggressive care in Los Angeles? If the Los Angeles hospitals had functioned at the same level as the Sacramento hospitals over the five years of the study measuring these differences, the savings to the Medicare system would have been approximately $1.7 billion.

Brain Aneurysms

Researchers studied immediate family members of patients who had symptomatic brain aneurysms. The researchers wanted to know if finding and surgically fixing aneurysms in the healthy family members who had no aneurysm symptoms would prevent strokes and deaths. The results were basically that many people were injured as a result of the surgery, which the researchers didn’t feel justified the few saved lives.

The Medical Outcomes Studies

In the late 1980s and early 1990s a series of studies called the Medical Outcomes Studies were completed. Their purpose was to measure differences in medical resources used and health outcomes in patients with common conditions who saw different kinds of doctors. They wanted to know if ologist care led to better health compared to primary care, and how the doctors differed in practice styles. The researchers studied patients with high blood pressure and diabetes.

For high blood pressure, patients of cardiologists had more office visits, more prescriptions, more lab tests per physician visit, and were more likely to be hospitalized. There was no difference between the three physician types for average blood pressure, complications, or physical function.

For diabetes, patients of endocrinologists were found to have higher hospitalization rates, more office visits, more prescription drugs, and more lab tests per physician visit than family physicians. There was no difference between the three physicians for average sugar levels, physical functioning, and almost all diabetic complications.

Summary

These are just a few examples of how more aggressive medical care doesn’t always result in better health. All of the GIMeC members typically support the notion that more is better. Overcoming this aggression bias will be one of our big challenges in reforming our healthcare system.

References

Wennberg DE, Fisher ES, Goodman DC, Skinner JS, Bronner KK, Sharp SM. Taking care of patients with severe chronic disease: the Dartmouth atlas of health care 2008. The Dartmouth Institute for Health Policy and Clinical Practice Center for Health Policy Research [online]2008 [cited 2009 May 2]. Available from: http://www.dartmouthatlas.org/atlases/2008_Chronic_Care_Atlas.pdf.

Risks and benefits of screening for intracranial aneurysms in first-degree relatives of patients with sporadic subarachnoid hemorrhage. N Engl J Med. Oct 28 1999;341(18):1344-1350.

Vernooij MW, Ikram MA, Tanghe HL, et al. Incidental findings on brain MRI in the general population. N Engl J Med. Nov 1 2007;357(18):1821-1828.

Greenfield S, Nelson EC, Zubkoff M, et al. Variations in resource utilization among medical specialties and systems of care. Results from the medical outcomes study. JAMA. Mar 25 1992;267(12):1624-1630.

Greenfield S, Rogers W, Mangotich M, Carney MF, Tarlov AR. Outcomes of patients with hypertension and non-insulin dependent diabetes mellitus treated by different systems and specialties. Results from the medical outcomes study. JAMA. Nov 8 1995;274(18):1436-1444.

6° Congresso Nazionale SIHTA – Bari, 7-9 novembre 2013 @Medici_Manager @SIHTA_Italia

Segnate la data del 6° Congresso di SIHTA: per la prima volta organizzato al Sud, a Bari; per la prima volta analizzata la metodologia della valutazione etica e d’impatto sociale nell’HTA; per la prima volta focalizzati i temi del cambiamento di cultura dei professionisti e degli stakeholder a sostegno dei cambiamenti organizzativi e strutturali.

Dal 7 al 9 novembre 2013

Quattro sessioni plenarie dedicate a: la valutazione etica e di impatto sociale in HTA; HTA come leva per lo sviluppo economico del Paese; HTA tra innovazione e disinvestimento; equità e sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale.

Sessioni parallele e workshops.

Sessioni posters.

Eventi precongressuali tra cui la sessione autunnale dell’Health Policy Forum (a invito).

Quote d’iscrizione molto ridotte rispetto alle edizioni precedenti.

DOVETE ESSERE PRESENTI

http://slidesha.re/14VpOjH

I grandi ospedali sono più sicuri @Medici_Manager @WRicciardi

17 maggio 2013 di Denis Rizzoli http://bit.ly/10bEciV

Il rischio di morte per un intervento chirurgico è significativamente più alto negli ospedali di piccole dimensioni. È il risultato di uno studio condotto dall’ Agenzia sanitaria per i servizi regionali(Agenas) e il Dipartimento di epidemiologia del Lazio. Si chiama Volumi di attività ed esiti delle cure: prove scientifiche in letteratura ed evidenze scientifiche in Italia e vuole dimostrare quali sono le malattie curate meglio negli ospedali con alti volumi di attività. Le conclusioni parlano chiaro. Farsi operare in una struttura che svolge poche operazioni potrebbe essere fatale per almeno 14 diverse patologie: l’aneurisma dell’aorta addominale non rotto, l’angioplastica coronarica, l’artoplastica del ginocchio, il bypass aortocoronarico, il tumore del colon, del pancreas, del polmone, della prostata, dello stomaco e della vescica, la colecistectomia laparoscopica, l’endoarterectomia carotidea, la frattura del femore e l’infarto. Per dimostrarlo, hanno svolto una ricerca sistematica negli studi internazionali pubblicati. Questi risultati sono stati poi confrontati con i dati del Programma Nazionale Esiti 2012, già pubblicati da Wired nella mappa interattiva #doveticuri con le performance di tutti gli ospedali italiani, cliccabile qui sotto.

VOTA LA MAPPA DI WIRED AL DATA JOURNALISM AWARD
Quali sono gli interventi più sicuri in un grande ospedale? 
L’ infarto è una delle patologie che fa più vittime con una media nazionale elevata: il 10,28% dei pazienti è morto entro 30 giorni dall’intervento, nel 2011. In questo caso, tuttavia, l’ospedale in cui si viene operati può fare la differenza.

È bastato incrociare la percentuale di decessi per infarto in ogni struttura (sull’asse verticale) con il numero di casi trattati nello stesso ospedale (sull’asse orizzontale) – escludendo però i centri con meno di 6 casi l’anno perché statisticamente fuorvianti. La curva risultante mostra che il numero di morti crolla fino a circa 100-150 casi l’anno e continua a diminuire al crescere dei ricoveri, come mostra il grafico tratto dallo studio di Agenas. È errato tuttavia parlare di una soglia di interventi oltre la quale si può ritenere un ospedale sicuro. “ Nei casi che abbiamo studiato, la mortalità continua a diminuire al crescere dei volumi quindi non è possibile trovare un punto esatto, una soglia minima”, spiega Marina Davoli del Dipartimento epidemiologia del Lazio. Forse non è un caso se tra gli ospedali con l’indice di rischio per infarto più alto (66,67%) nel 2011 ci siano strutture con un volume di 7 casi l’anno, come l’Ospedale Civile di Giaveno, in provincia di Torino, oppure l’ Ospedale di Pieve di Cadore, Belluno, con un volume di 9 interventi annuali. Tra i centri più virtuosi, invece, c’è una struttura con 891 casi l’anno, l’ Azienda Ospedaliera-Universitaria Careggi di Firenze, che ha un indice di rischio del 6,47%.

Anche per i malati di tumore si presenta un rischio analogo. Per esempio, il 5,88% dei pazienti operati di cancro allo stomaco sono morti nel 2011 ed è una delle malattie oncologiche più pericolose. Anche per questo intervento si è più sicuri in un grande centro.

I dati sulla mortalità di ogni struttura sono stati collocati sull’asse Y, mentre il numero di interventi effettuati sull’asse X. I pazienti che non sopravvivono dopo 30 giorni dall’intervento si riducono drasticamente negli ospedali che operano fino a circa 20-30 casi all’anno e la curva continua ad abbassarsi al crescere dei volumi di attività. Anche qui, uno dei centri con l’indice di rischio particolarmente alto (50%) è l’ospedale Rummò di Benevento con volume di 8 casi, mentre tra i più virtuosi c’è il Policlinico Universitario Agostino GemelliRoma, con una mortalità dell’0,62% e un volume di 96 interventi l’anno.

Passando alla frattura del femore, non ci sono sorprese rispetto ai casi precedenti. Questo intervento ortopedico è piuttosto pericoloso per i pazienti più anziani. Nel 2011, sono deceduti in media il 5,91%.

Il rischio di morte entro 30 giorni diminuisce a picco nelle strutture che operano fino a 100 interventi all’anno e continua a diminuire lievemente fino a stabilizzarsi.

Perché gli ospedali piccoli sono più pericolosi?
Riguardo ai motivi per cui il rischio di morte cala negli ospedali con più ricoveri gli esperti sembrano essere tutti d’accordo. “ È una relazione già ampiamente documentata dalla letteratura internazionale – spiega Carlo Perucci, direttore di Agenas – nella chirurgia c’è una linea d’apprendimento riguardo alla manualità e alle competenze. Più si lavora, più si diventa bravi”. Anche la numerosità delle equipe è un fattore determinate. “ Oltre alle abilità del singolo medico, c’è anche l’organizzazione. Un ospedale grande ha affrontato più casi particolari e quindi ha più medici specializzati in singole variazioni della stessa patologia”, illustra Stefano Nava, primario di pneumologia all’ Ospedale Sant’Orsola diBologna. Infine, anche il maggior numero di attrezzature sembrano giocare a favore dei grandi centri. “Solo le strutture con alti volumi, possono avere tutta l’infrastruttura necessaria per affrontare il problema”, prosegue Perucci. “ Se un paziente ha un trauma cranico e va nell’ospedale più vicino che non ha imaging o il radiologo non è reperibile, è chiaro che perde tempo. Il fattore tempo è fondamentale per molte patologie”, conclude Nava.

La mappa # doveticuri di Wired, dove sono contenuti le performance di tutti gli ospedali italiani, è stata scelta tra le finaliste dei Data Journalism Award, il premio del  Global Editors Network (Gen) dedicato alle migliori inchieste di data journalism. Da quest’anno anche i lettori possono esprimere la loro preferenza sul sito datajournalismawards.orgFate sentire la vostra voce.

Some older adults get unnecessary colonoscopies @Medici_Manager

(Reuters Health) – Close to one-quarter of colonoscopies performed on older adults in the U.S. may be uncalled for based on screening guidelines, a new study from Texas suggests.

Researchers found rates of inappropriate testing varied widely by doctor. Some did more than 40 percent of their colonoscopies on patients who were likely too old to benefit or who’d had a recent negative screening test and weren’t due for another.

Guidelines from the U.S. Preventive Services Task Force, a government-backed panel, recommend screening for colon cancer – every 10 years, if it’s done with colonoscopy – between age 50 and 75.

After that point, “It involves an unnecessary risk with no added benefit for these older patients,” said Kristin Sheffield, the new study’s lead author from the University of Texas Medical Branch in Galveston.

Those risks include bowel perforation, bleeding and incontinence, as well as the chance of having a false positive test and receiving unnecessary treatment.

Even for screening tests that are universally recommended for middle-aged adults, the balance of benefits and risks eventually points away from screening as people age. Any cancers that are caught might never have shown up during a patient’s lifetime if the person is too old or the cancer too slow-growing.

But because there has been so much effort to educate the public about reasons to get screened, the potential harms are often overlooked – and the idea of stopping screening isn’t regularly discussed, researchers said.

Sheffield and her colleagues looked at Medicare claims data for all of Texas and found just over 23 percent of colonoscopies performed on people age 70 and older were possibly inappropriate.

For patients age 76 to 85, as many as 39 percent of the tests were uncalled for, the researchers wrote Monday in JAMA Internal Medicine. The rest were likely done for diagnostic purposes.

A MORAL OBLIGATION?

Another study published in the same journal supports the idea that many Americans are so focused on the possible benefits of screening that they don’t realize harms are involved as well.

Dr. Alexia Torke from the Indiana University School of Medicine in Indianapolis and her colleagues surveyed 33 adults between age 63 and 91 and found many saw screening as a moral obligation.

Few of the older adults had discussed the possibility of stopping routine screening, such as for breast cancer, with their doctor, and some told the researchers they would distrust or question a doctor who recommended they stop.

“There’s very limited data for any cancer test that it leads to any benefit for older adults,” said Dr. Mara Schonberg, from Beth Israel Deaconess Medical Center and Harvard Medical School in Boston.

“You want to be doing this thinking it’s going to be helping you live longer,” she told Reuters Health – especially because the chance of suffering side effects from screening or treatment may be higher among older people.

Schonberg, who wrote a commentary on Torke’s study, said time spent unnecessarily screening older adults may take away from conversations that could actually benefit their health – such as about exercise and eating better.

“There’s really a strongly held belief that you need to get screened, that it’s irresponsible if you don’t,” said Dr. Steven Woloshin, who has studied attitudes toward screening at the Geisel School of Medicine at Dartmouth in Hanover, New Hampshire.

“There have been all these messages for years about the importance of screening that people have been inundated with, and I think it’s really hard to change the message now, even though it’s become clear that screening is a double-edged sword,” Woloshin, who wasn’t involved in the new research, told Reuters Health.

The researchers agreed screening should be an individual decision as people get older, but that everyone should fully understand what they stand to gain – if anything – and what they could lose by getting screened.

For colon cancer in particular, Sheffield recommended elderly people who really want to be screened go with a less-invasive method than colonoscopy, such as fecal occult blood testing.

OVERUSING ANESTHESIA?

In another analysis of Medicare beneficiaries undergoing colonoscopy, researchers led by Dr. Gregory Cooper from Case Western Reserve University in Cleveland learned the proportion of procedures using anesthesia – most likely propofol – increased from less than nine percent in 2000 to 35 percent in 2009.

The cost of a procedure using anesthesia is about 20 percent higher than one without it, the researchers noted.

Patients in their study suffered a complication – including perforation or breathing problems – during one in 455 procedures using anesthesia, compared to one in 625 without anesthesia. The researchers said so-called deep sedation may impair patients’ airway reflexes and blunt their ability to respond to procedure-related pain.

SOURCE: bit.ly/KEPNSw JAMA Internal Medicine, online March 11, 2013.

Shared Decision Making to Improve Care and Reduce Costs @Medici_Manager

Emily Oshima Lee, M.A., and Ezekiel J. Emanuel, M.D., Ph.D.

http://www.nejm.org/doi/pdf/10.1056/NEJMp1209500

A sleeper provision of the Affordable Care Act (ACA) encourages greater use of shared decision making in health care. For many health situations in which there’s not one clearly superior course of treatment, shared decision making can ensure that medical care better aligns with patients’ preferences and values. One way to implement this approach is by using patient decision aids — written materials, videos, or interactive electronic presentations designed to inform patients and their families about care options; each option’s outcomes, including benefits and possible side effects; the health care team’s skills; and costs. Shared decision making has the potential to provide numerous benefits for patients, clinicians, and the health care system, including increased patient knowledge, less anxiety over the care process, improved health outcomes, reductions in unwarranted variation in care and costs, and greater alignment of care with patients’ values.

However, more than 2 years after enactment of the ACA, little has been done to promote shared decision making. We believe that the Centers for Medicare and Medicaid Services (CMS) should begin certifying and implementing patient decision aids, aiming to achieve three important goals: promote an ideal approach to clinician–patient decision making, improve the quality of medical decisions, and reduce costs.

In a 2001 report, Crossing the Quality Chasm, the Institute of Medicine recommended redesigning health care processes according to 10 rules, many of which emphasize shared decision making. One rule, for instance, underlines the importance of the patient as the source of control, envisioning a health care system that encourages shared decision making and accommodates patients’ preferences.

Unfortunately, this ideal is inconsistently realized today. The care patients receive doesn’t always align with their preferences. For example, in a study of more than 1000 office visits in which more than 3500 medical decisions were made, less than 10% of decisions met the minimum standards for informed decision making.1 Similarly, a study showed that only 41% of Medicare patients believed that their treatment reflected their preference for palliative care over more aggressive interventions.2

There’s also significant variation in the utilization of procedures, particularly those for preference-sensitive conditions, which suggests that patients may receive care aligned not with their values and preferences, but with their physicians’ payment incentives. Among Medicare patients in more than 300 hospital regions, the rate of joint-replacement procedures for chronic hip arthritis varied by as much as a factor of five, and the use of surgery to treat lower back pain varied by nearly a factor of six. Other studies have found wide regional variation in the treatment of early-stage breast and prostate cancers and in the use of cardiac procedures.

Section 3506 of the ACA aims to facilitate shared decision making. Primarily, it funds an independent entity that would develop consensus-based standards and certify patient decision aids for use by federal health programs and other interested parties. In addition, the secretary of health and human services is empowered to fund, through grants or contracts, the development and evaluation of these tools. Decision aids are meant to be evidence-based and inform patients of the risks and benefits of tests and treatments, their relative effectiveness, and their costs. Health care providers will be eligible for grants to implement these tools and to receive training and technical support for shared decision making at new resource centers. The ACA also authorizes the Center for Medicare and Medicaid Innovation to test shared-decision-making models designed to improve patients’ and caregivers’ understanding of medical decisions and assist them in making informed care decisions. For approaches that provide savings or improve quality of care, implementation can be mandated throughout Medicare without additional legislation.

Randomized trials consistently demonstrate the effectiveness of patient decision aids. A 2011 Cochrane Collaborative review of 86 studies showed that as compared with patients who received usual care, those who used decision aids had increased knowledge, more accurate risk perceptions, reduced internal conflict about decisions, and a greater likelihood of receiving care aligned with their values. Moreover, fewer patients were undecided or passive in the decision-making process — changes that are essential for patients’ adherence to therapies.

Studies also illustrate the potential for wider adoption of shared decision making to reduce costs. Consistently, as many as 20% of patients who participate in shared decision making choose less invasive surgical options and more conservative treatment than do patients who do not use decision aids.3 In 2008, the Lewin Group estimated that implementing shared decision making for just 11 procedures would yield more than $9 billion in savings nationally over 10 years. In addition, a 2012 study by Group Health in Washington State showed that providing decision aids to patients eligible for hip and knee replacements substantially reduced both surgery rates and costs — with up to 38% fewer surgeries and savings of 12 to 21% over 6 months.4 The myriad benefits of this approach argue for more rapid implementation of Section 3506 of the ACA.

The Department of Health and Human Services could quickly launch pilot programs for shared decision making while it works to standardize and certify decision aids. The International Patient Decision Aid Standards Collaboration has developed evidence-based guidelines for certification indicating that decision aids should include questions to help patients clarify their values and understand how those values affect their decisions; information about treatment options, presented in a balanced manner and in plain language; and up-to-date data from published studies on the likelihood of achieving the treatment goal with the proposed intervention and on the nature and frequency of side effects and complications. In addition, it would be helpful to include validated, institution-specific data on how often the specified procedure has been performed, the frequency of side effects and complications, and the cost of the procedure and any associated medication and rehabilitation regimens. We believe that decision aids should be written at an eighth-grade level and should be brief.5

In our view, it seems most critical to begin with the 20 most frequently performed procedures and to require the use of decision aids in those cases. Many decision aids have already been rigorously evaluated, so CMS could rapidly certify these tools and require their use in the Medicare and Medicaid programs. To give such a requirement teeth, full Medicare reimbursement could be made contingent on having documentation in the patient’s file of the proper use of a decision aid for these 20 procedures. Providers who did not document the shared-decision-making process could face a 10% reduction in Medicare payment for claims related to the procedure in year 1, with reductions gradually increasing to 20% over 10 years. This payment scheme is similar to that currently tied to hospital-readmissions metrics.

In addition, the improved quality of care and savings gained through shared decision making can be maximized by integrating this approach into other ACA initiatives. For example, the documented use of patient decision aids could be used as a quality metric in patient-centered medical homes, accountable care organizations, and systems caring for patients eligible for both Medicare and Medicaid. Eligibility criteria for incentives to adopt electronic health record technology might be expanded to include the use of shared decision making and patient decision aids. Moreover, information gathered by the Patient-Centered Outcomes Research Institute (PCORI) could be incorporated into certified decision aids and used to provide physicians and patients with valuable information for making health care decisions. Data about the effectiveness of shared-decision-making techniques could also be collected and disseminated by PCORI for continuous improvement of these approaches.

Unfortunately, implementation of ACA Section 3506 has been slow. More rapid progress on this front would benefit patients and the health care system as a whole.

@ProfAlanMaynard on NICE approval: Lucentis for Macular Oedema why not Avastin? @Medici_Manager

NICE approves eye drug for diabetes

By James GallagherHealth and science reporter, BBC News http://www.bbc.co.uk/news/health-20898934

eye
A drug that can save the sight of people with diabetes may now be made available on the NHS in England and Wales – reversing an earlier decision.

At least 50,000 people in the UK have diabetic macular oedema which can leave people unable to read, work or drive.

In 2011, the National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) said ranibizumab, which is sold as Lucentis, was too expensive.

A final decision will be made in February.

Macular oedema occurs when fluid leaks from the small blood vessels in the eye.

Diabetes can trigger changes to the blood vessels leading to fluid collecting in the central part of the retina called the macular area.

Saving sightProf Carole Longson, from NICE, said the manufacturers had agreed to reduce the price which led to a review of the guidance.

“NICE is pleased to recommend ranibizumab as a treatment option for some people with visual impairment caused by diabetic macular oedema in new draft guidance.”

Clara Eaglen, eye health policy and campaigns manager at the charity RNIB, said: “We believe NICE has thrown a lifeline to the growing number of people with diabetes facing blindness.

“Currently people are needlessly losing their sight from diabetic macular oedema.”

Barbara Young, the chief executive of Diabetes UK, said: “We are delighted that NICE have reconsidered their previous decision, and that this draft guidance recommends that Lucentis is made available on the NHS, as this would mean more people with diabetes would have a better opportunity to preserve and possibly improve their vision.”

Selling Proton Therapy to the Public: High Costs Without Benefit @Medici_Manager

In Trentino si sta mettendo in funzione la protonterapia! Auguri per la sostenibilità!

Written by Daniel Wolfson on March 20, 2013 http://bit.ly/WEuqap

Arriving in a train station in a Northeast city the other day, I was struck by the number of advertisements for proton therapy at a local academic medical center (AMC) plastered throughout the station and in local subways. The ads feature a bicycle racer with the tag line: “THE WIND IN YOUR FACE IS WORTH PROTON THERAPY: A cancer treatment that has fewer side effects.”

A bold statement, I thought, considering several studies have shown that proton therapy provides no long-term benefit over traditional radiation and comes with significantly higher cost for most conditions. There are a limited number of conditions—such as pediatric oncology—where proton therapy is shown to be effective.  Most striking, however, was the fact that this ad was specifically created to target a public that is not aware of the proton therapy’s marginal benefit and in what limited conditions it is effective.

“Marginal benefit” is when two procedures have small differences in benefits but large cost differences. Usually the more expensive intervention yields more benefits, like fewer side effects. But in this case, we have a procedure with no added benefits that is a lot more expensive.

Proton therapy uses atomic particles to treat cancer rather than X-rays. The particle accelerator is the size of a football field and costs about $180 million. According to the Yale study, Medicare pays over $32,000 for the treatment compared to under $19,000 for radiation. When applied to treat prostate cancer, outcomes were no different than intensity-modulated radiotherapy. Urinary function side effects were slightly better within six months but those advantages disappeared with 12 months post-therapy.

The ad directly contradicts the findings of this study and claims that proton therapy has fewer side effects than traditional therapy. This claim is true for pediatric cases but not for prostate cancer, the one primarily targeted by these ads.

What bothers me the most is that an AMC is peddling a more expensive procedure with no clear added benefit to the public through a massive advertising campaign. Isn’t there a moral imperative for an AMC to work in the best interest of their community based on the best available clinical evidence? Isn’t this supposed to be the era of value services? If they must advertise the therapy (possibly to recoup some of their costs or at least break even), why not target referring physicians rather than an unsuspecting public that is prone to request the latest and greatest technology just because it’s new? Perhaps referring physicians are wise to the lack of proton therapy’s marginal benefit and the AMC is hoping they will acquiesce to their patients’ demand for this marginal procedure. Is the public to know what cases are best for this type of therapy and for which conditions it is not well suited?

We should expect more and we should demand better. Proton therapy is clearly a more expensive procedure where a just-as-effective procedure exists. Quality and safety has not been raised, only the cost of medicine.

OECD’s Gurria Says Austerity Versus Growth Is a False Dilemma @Medici_Manager @WRicciardi

By Mark Deen, http://bloom.bg/XZQAQ9

Angel Gurria, secretary general of the Organization for Economic Cooperation and Development, said policy makers in the euro area should push ahead with deficit cuts and avoid the “false dilemma” of the austerity debate.

“You need fiscal consolidation in many countries and at the same time you need to plant the seeds of future growth,” Gurria said today in an interview at the World Economic Forum in Davos, Switzerland. “Let’s go for the reforms, accelerate the reforms, so we can consolidate the recovery.”

The International Monetary Fund cut its growth forecast for the 17-nation euro area yesterday, predicting a second year of contraction as the region’s governments seek to reduce public borrowing and revamp their economies in the wake of a sovereign debt crisis. Gurria said that increasing flexibility of both labor and product markets is key to reviving growth.

“If you really want to go for a durable recovery, you really have to go for the fundamental measures,” Gurria said. “Some of these take a long time to get results but today, paradoxically, your best short-term policies may be your best long-term reforms. The announcement and communication of where you want to go may be your best bet.”

To contact the reporter on this story: Mark Deen in Paris at markdeen@bloomberg.net

To contact the editor responsible for this story: Craig Stirling at cstirling1@bloomberg.net