La nuova lotta di classe
Lavoro, capitale, politica. Il libro di Michael Lind, “The New Class War”, sul conflitto della contemporaneità. Una divisione prima di tutto geografica tra le aree urbane e le Vandee delle periferie. Un’indagine di Lorenzo Castellani sulla tecnocrazia e il populismo
di Lorenzo Castellani
È tornata la lotta di classe. Su List lo abbiamo scritto spesso, e non tanto in termini marxisti e materialisti quanto come scontro politico tra gruppi diversi, sul piano socio-culturale, all’interno degli Stati nazionali. E’ una tesi che inizia a farsi largo anche a livello internazionale. L’ultimo magistrale libro di Michael Lind, intitolatoThe New Class War, descrive precisamente ciò che ci troviamo davanti e rifiutiamo di vedere.
La tesi di Lind è semplice e potente: siamo nella mani di una élite tecnocratica, che vive asserragliata nelle sue enclave, fuori c’è una classe media e operaia (l’autore non ha paura di usare working class per raggruppare tutti coloro che sono fuori dal giro dell’establishment, vivono in realtà periferiche e territorializzate) sempre più disorientata ed incattivita.
La divisione, per Lind, è prima di tutto geografica. I tecnocrati, termine usato qui genericamente per indicare tutti coloro che hanno elevate competenze certificate da un sistema universitario internazionale sempre più oneroso, vivono negli hubs, le grandi aree urbane dove si concentrano finanza, multinazionali, tecnologia, media, servizi di consulenza. Gli stessi si descrivono come “creativi”, “competenti”, “élite digitale”, “brain hubs”, “thinkepreneur”, “smart”.
Dall’altro lato, appena fuori le metropoli oppure dispersa per le varie Vandee del mondo, c’è la working class. Sono coloro che sono ancorati al modello “tradizionale”, nella terminologia delle élite progressiste, che vivono nelle province e nelle periferie, che credono nella famiglia tradizionale, nella proprietà immobiliare, usano l’auto e coltivano miti nazional-popolari e strapaesani. Non sono necessariamente “i poveri”, perché un imprenditore di provincia o un artigiano guadagnano spesso molto di più di un giornalista patinato, ma diversa è la loro cultura.
La working class nazionale, inoltre, è costretta a mescolarsi con i nuovi arrivati, gli immigrati. Dinamica sociale che alimenta la paure dei residenti, ma che tarpa anche le ali ai nuovi arrivati segregandoli nelle periferie e spingendoli a lavorare come manodopera a basso prezzo (badanti, colf, giardinieri ecc). Di fatti, per i nati fuori dall’énclave tecnocratica la strada per raggiungere gli hubs è lunga e accidentata, sostiene Lind, checché ne dicano gli apostoli della meritocrazia. Sì perché la grande maggioranza di quelli che entrano a far parte dei tecnocratici parte avvantaggiata: figli di genitori laureati e/o con una condizione economica superiore alla media. Insomma, il sistema premia il merito, ma solo se ci sono determinate condizioni di partenza e se l’individuo è disposto a sposare i valori dell’establishment fatti di identità blande, diritti individuali, ecologismo, mobilità lavorativa.
Grazie a questa chiusura ermetica, l’ideologia della classe tecnocratica è un’ipocrita sintesi tra individualismo assoluto e disciplinamento autoritario. L’individuo deve (non può) essere libero da ogni legame famigliare, geografico, sociale della tradizione. Il meritevole deve farsi tecnocrate globale, pluralista, aperto alla diversità di genere ed etnia, ecologico, aperto. Al tempo stesso, però, le uniche idee accettabili sono quelle della stessa classe tecnocratica. Tutto il resto, che resta fuori, è populismo, fascismo, bigottismo, analfabetismo funzionale. Il vecchio mondo borghese in cui la famiglia, il patrimonio, la comunità erano valori deve essere spazzato via. Seppellito insieme ai suoi status symbol come la proprietà immobiliari, il cibo troppo calorico e le auto.
Scrive Lind che c’è “una nuova ortodossia della competente classe manageriale, i cui membri dominano simultaneamente le burocrazie, le assemblee societarie, le università, le fondazioni e i media del mondo occidentale.” E “il suo modello economico si basa su tasse, regolamentazioni, arbitrati e mercato del lavoro globali, che indeboliscono sia la democrazia degli stati nazionali che la maggioranza della classe operaia nazionale.
Il suo modello preferito di governo è apolitico, non maggioritario, elitista, tecnocratico.” Una élite che, come descritta da Jonah Goldberg in Miracolo e suicidio dell’Occidente, altro libro prezioso appena pubblicato in Italia da LiberiLibri, assume caratteri anti-concorrenziali, burocratici, anti-comunitari e centralizzatori. Ha la smania, in sostanza, di gestire tutto dal centro e di correggere tutto attraverso lo Stato, le istituzioni sovranazionali ed i tribunali, esponendosi a pericolosi fallimenti per la naturale fallacia in cui incorre chi pretende il controllo totale sulla società.
E da qui, tornando a Lind, la lotta di classe. Perché i territorializzati, minacciati dalle dinamiche dell’economia globale e dall’immigrazione, ricorrono all’unica arma possibile nel mondo occidentale: il voto. Un movimento elettorale di reazione, quello che ha scosso i regimi democratici degli ultimi dieci anni.
Dove finisce il ragionamento di Lind? Come si guarisce dalla malattia? L’intellettuale americano sfocia in quello che potremmo chiamare neo-corporativismo, e che Lind chiama pluralismo democratico. Non si tratta di rievocare il corporativismo fascista, esperimento nella pratica di poco successo perché effettuato in una cornice statalista, autoritaria e dominata dal partito unico, ma di una tradizione che parte dal sociologo Durkheim e s’integra con i pensatori federalisti, come Thomas Jefferson. L’unico modo per trovare un patto tra le due classi è fornire gli strumenti per cui possa avvenire una trattativa: rivivificare i sindacati, ri-territorializzare la politica, addomesticare il capitalismo. Fondare la società su un ordine tripartito: lavoro, capitale, politica. Che dovranno tornare a cooperare all’interno di nuovi ordini camerali e territoriali. La working class, ben più numerosa e diffusa dei tecnocrati, deve utilizzare questi strumenti per far valere il proprio potere. Un maggiore controllo sulla politica, sulla finanza pubblica, sul commercio, sull’immigrazione ed un rapporto più stretto con il mondo economico-finanziario sono gli antidoti al tecno-populismo, all’oligarchia demagogica in cui rischiamo di precipitare. In questo processo la maturazione dei movimenti nazional-populisti è fondamentale, il passaggio dalla reazione alla progettazione di un nuovo ordine è essenziale. Ma anche nelle élite tecnocratiche servono pontieri che possano favorire questi processi federativi e spingere affinché si rafforzi il controllo dal basso del potere. Per molti aspetti questo ragionamento coincide con quello di Joshua Goldberg, che parte da posizioni più conservatrici ma alla fine ci riconduce nel suo libro alla necessità di riscoprire e difendere lo spirito originario dell’Occidente. Un approccio che aveva trovato spazio anche nelle riflessioni di importanti, ma spesso fuori dal coro del conformismo, pensatori italiani come Gianfranco Miglio e Geminello Alvi.
La diagnosi della malattia della nostra società è ormai accurata. Riusciranno vecchie e nuove élite a forgiare un nuovo patto? O siamo forse destinati a dividerci tra le due disastrose derive, quella orwelliana e quella sudamericana?