Physician, public health specialist. Former CEO at University Hospital Trust, Udine; Provincial Healthcare Trust, Trento; Local Healthcare Trust No. 19 of the Veneto Region, Adria (Italy)
Lavoro, capitale, politica. Il libro di Michael Lind, “The New Class War”, sul conflitto della contemporaneità. Una divisione prima di tutto geografica tra le aree urbane e le Vandee delle periferie. Un’indagine di Lorenzo Castellani sulla tecnocrazia e il populismo
di Lorenzo Castellani
È tornata la lotta di classe. Su List lo abbiamo scritto spesso, e non tanto in termini marxisti e materialisti quanto come scontro politico tra gruppi diversi, sul piano socio-culturale, all’interno degli Stati nazionali. E’ una tesi che inizia a farsi largo anche a livello internazionale. L’ultimo magistrale libro di Michael Lind, intitolatoThe New Class War, descrive precisamente ciò che ci troviamo davanti e rifiutiamo di vedere.
La tesi di Lind è semplice e potente: siamo nella mani di una élite tecnocratica, che vive asserragliata nelle sue enclave, fuori c’è una classe media e operaia (l’autore non ha paura di usare working class per raggruppare tutti coloro che sono fuori dal giro dell’establishment, vivono in realtà periferiche e territorializzate) sempre più disorientata ed incattivita.
La divisione, per Lind, è prima di tutto geografica. I tecnocrati, termine usato qui genericamente per indicare tutti coloro che hanno elevate competenze certificate da un sistema universitario internazionale sempre più oneroso, vivono negli hubs, le grandi aree urbane dove si concentrano finanza, multinazionali, tecnologia, media, servizi di consulenza. Gli stessi si descrivono come “creativi”, “competenti”, “élite digitale”, “brain hubs”, “thinkepreneur”, “smart”.
Dall’altro lato, appena fuori le metropoli oppure dispersa per le varie Vandee del mondo, c’è la working class. Sono coloro che sono ancorati al modello “tradizionale”, nella terminologia delle élite progressiste, che vivono nelle province e nelle periferie, che credono nella famiglia tradizionale, nella proprietà immobiliare, usano l’auto e coltivano miti nazional-popolari e strapaesani. Non sono necessariamente “i poveri”, perché un imprenditore di provincia o un artigiano guadagnano spesso molto di più di un giornalista patinato, ma diversa è la loro cultura.
La working class nazionale, inoltre, è costretta a mescolarsi con i nuovi arrivati, gli immigrati. Dinamica sociale che alimenta la paure dei residenti, ma che tarpa anche le ali ai nuovi arrivati segregandoli nelle periferie e spingendoli a lavorare come manodopera a basso prezzo (badanti, colf, giardinieri ecc). Di fatti, per i nati fuori dall’énclave tecnocratica la strada per raggiungere gli hubs è lunga e accidentata, sostiene Lind, checché ne dicano gli apostoli della meritocrazia. Sì perché la grande maggioranza di quelli che entrano a far parte dei tecnocratici parte avvantaggiata: figli di genitori laureati e/o con una condizione economica superiore alla media. Insomma, il sistema premia il merito, ma solo se ci sono determinate condizioni di partenza e se l’individuo è disposto a sposare i valori dell’establishment fatti di identità blande, diritti individuali, ecologismo, mobilità lavorativa.
Grazie a questa chiusura ermetica, l’ideologia della classe tecnocratica è un’ipocrita sintesi tra individualismo assoluto e disciplinamento autoritario. L’individuo deve (non può) essere libero da ogni legame famigliare, geografico, sociale della tradizione. Il meritevole deve farsi tecnocrate globale, pluralista, aperto alla diversità di genere ed etnia, ecologico, aperto. Al tempo stesso, però, le uniche idee accettabili sono quelle della stessa classe tecnocratica. Tutto il resto, che resta fuori, è populismo, fascismo, bigottismo, analfabetismo funzionale. Il vecchio mondo borghese in cui la famiglia, il patrimonio, la comunità erano valori deve essere spazzato via. Seppellito insieme ai suoi status symbol come la proprietà immobiliari, il cibo troppo calorico e le auto.
Scrive Lind che c’è “una nuova ortodossia della competente classe manageriale, i cui membri dominano simultaneamente le burocrazie, le assemblee societarie, le università, le fondazioni e i media del mondo occidentale.” E “il suo modello economico si basa su tasse, regolamentazioni, arbitrati e mercato del lavoro globali, che indeboliscono sia la democrazia degli stati nazionali che la maggioranza della classe operaia nazionale.
Il suo modello preferito di governo è apolitico, non maggioritario, elitista, tecnocratico.” Una élite che, come descritta da Jonah Goldberg inMiracolo e suicidio dell’Occidente, altro libro prezioso appena pubblicato in Italia da LiberiLibri, assume caratteri anti-concorrenziali, burocratici, anti-comunitari e centralizzatori. Ha la smania, in sostanza, di gestire tutto dal centro e di correggere tutto attraverso lo Stato, le istituzioni sovranazionali ed i tribunali, esponendosi a pericolosi fallimenti per la naturale fallacia in cui incorre chi pretende il controllo totale sulla società.
E da qui, tornando a Lind, la lotta di classe. Perché i territorializzati, minacciati dalle dinamiche dell’economia globale e dall’immigrazione, ricorrono all’unica arma possibile nel mondo occidentale: il voto. Un movimento elettorale di reazione, quello che ha scosso i regimi democratici degli ultimi dieci anni.
Entrano in gioco, a questo punto, i populisti. Per Lind il populismo è una reazione, una resistenza alla vittoria completa della classe tecnocratica, che ha maggiori risorse e potere ma numeri inferiori alla classe periferica. I populisti hanno cambiato coordinate alla politica. Il centrismo vincente degli anni novanta, quello dei Blair, dei Clinton, dei Bush, dei Berlusconi si basava su idee economiche liberali (centrodestra) e su un approccio etico aperto (progressista o, quantomeno, non tradizionalista). Quello dei populisti è l’esatto contrario, per questo è scomparso il centro ed i tecnocratici continuano a non volerlo comprendere, si basa su idee economiche di sinistra (Stato sociale) e su posizioni etiche di destra (tradizionaliste). In cui il collante più forte è l’opposizione alla classe tecnocratica e progressista che, nel frattempo, si è avvantaggiata della globalizzazione economica ed istituzionale occupando gran parte dei posti di potere nel mercato e nelle istituzioni non-maggioritarie. Qual è il problema del populismo? Lind non è tenero: i movimenti populisti reagiscono, protestano, frenano, ma non governano. Se e quando governano, faticano a costruire una propria élite, un contro-establishment capace di ricondurre alla ragionevolezza la classe tecnocratica, tenere unita la società, trovare un accordo tra le due classi. È per questo che la politica occidentale rischia di andare a rotoli, perché nessuno riesce a costruire un New Deal. Troppo sprovveduti i populisti, troppo cieca e sfacciata la classe tecnocratica. I due mondi non si connettono, nessuno coglie la raffinatezza del buon viso a cattivo gioco e della mediazione. E scrive Lind, fornendo una potente suggestione, che il rischio è quello della deriva sudamericana in cui oligarchie oppressive provocano cicliche e distruttive reazioni populiste. È il tecnopopulismo, regime in cui le due anime, le due classi, convivono nel rischio dell’autodistruzione. Quanto manca al collasso del sistema? Non lo sappiamo, ma come ammoniva George Orwell nei regimi tecnocratici vi è sempre il rischio “di una società gerarchica, con in cima una aristocrazia della competenza e in basso una massa di semi-schiavi”.
Dove finisce il ragionamento di Lind? Come si guarisce dalla malattia? L’intellettuale americano sfocia in quello che potremmo chiamare neo-corporativismo, e che Lind chiama pluralismo democratico. Non si tratta di rievocare il corporativismo fascista, esperimento nella pratica di poco successo perché effettuato in una cornice statalista, autoritaria e dominata dal partito unico, ma di una tradizione che parte dal sociologo Durkheim e s’integra con i pensatori federalisti, come Thomas Jefferson. L’unico modo per trovare un patto tra le due classi è fornire gli strumenti per cui possa avvenire una trattativa: rivivificare i sindacati, ri-territorializzare la politica, addomesticare il capitalismo. Fondare la società su un ordine tripartito: lavoro, capitale, politica. Che dovranno tornare a cooperare all’interno di nuovi ordini camerali e territoriali. La working class, ben più numerosa e diffusa dei tecnocrati, deve utilizzare questi strumenti per far valere il proprio potere. Un maggiore controllo sulla politica, sulla finanza pubblica, sul commercio, sull’immigrazione ed un rapporto più stretto con il mondo economico-finanziario sono gli antidoti al tecno-populismo, all’oligarchia demagogica in cui rischiamo di precipitare. In questo processo la maturazione dei movimenti nazional-populisti è fondamentale, il passaggio dalla reazione alla progettazione di un nuovo ordine è essenziale. Ma anche nelle élite tecnocratiche servono pontieri che possano favorire questi processi federativi e spingere affinché si rafforzi il controllo dal basso del potere. Per molti aspetti questo ragionamento coincide con quello di Joshua Goldberg, che parte da posizioni più conservatrici ma alla fine ci riconduce nel suo libro alla necessità di riscoprire e difendere lo spirito originario dell’Occidente. Un approccio che aveva trovato spazio anche nelle riflessioni di importanti, ma spesso fuori dal coro del conformismo, pensatori italiani come Gianfranco Miglio e Geminello Alvi.
La diagnosi della malattia della nostra società è ormai accurata. Riusciranno vecchie e nuove élite a forgiare un nuovo patto? O siamo forse destinati a dividerci tra le due disastrose derive, quella orwelliana e quella sudamericana?
Come governare il mondo al tempo della devolution. Questo è il sottotitolo di un aureo libretto di Parag Khanna sulla democrazia e sulla governance delle società complesse quali quelle attuali e future.
“La democrazia non è un fine in sé: i veri obiettivi sono una governance efficace e il miglioramento del benessere della nazione”.
Sotto questa luce, la celebre battura di Churchill “L a democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre” va ripensata secondo l’Autore.
Khanna è a favore di una democrazia guidata collettivamente (l’esempio della Svizzera è continuamente richiamato) e di una governance tecnocratica (come a Singapore). La critica del sistema USA, così caro a Tocqueville, è feroce.
La classica democrazia rappresentativa è inefficace e inefficiente: finisce per cristallizzare il dibattito nelle “posizioni” (destra, sinistra, conservatori, liberali, ecc.). La politics intralcia la policy perché la policy ha a che fare con le decisioni non con le posizioni. Il discorso sulle posizioni politiche, rispetto alle decisioni, è così vero oggi che J.C. Junker dice: “Sappiamo tutti che cosa fare, ma non sappiamo come essere rieletti dopo che l’abbiamo fatto”.
Khanna, del sistema americano, apprezza l’efficacia ed efficienza della tecnocrazia che gestisce le grandi città americane che misurano i risultati amministrativi attraverso la definizione e il monitoraggio pubblico di una serie di KPI (key performance indicators) e cita la frase dell’ex Sindaco di New York, Bloomberg, “Quello che non sai misurare non sai governare”! Estendere questi metodi al sistema federale implicherebbe che “Una tecnocrazia al governo degli Stati Uniti non parlerebbe certo la lingua della centralizzazione, ma, al contrario, quella del decentramento dei poteri”.
Una lettura, come quella del precedente Connectography, obbligata!
Anche se, almeno nel campo delle vaccinazioni, sembra che la comunicazione degli aspetti scientifici sia riuscita a indebolire il muro delle fake news c’è ancora molto da lavorare!
Un approccio sistemico sembra assolutamente necessario.
La seconda, di Alessandro Calvi, è stata pubblicata sul sito gli Stati Generali il 22 dicembre con il titolo “Fake news, giornali e moralismi senza più notizie” non riguarda la comunicazione scientifica, ma mi sembra molto utile per inquadrare il problema: in generale, viviamo in tempi (interessanti, forse troppo come dice Mario Sechi) caratterizzati da una comunicazione assolutamente inadeguata per una società moderna, aperta e complessa. http://www.glistatigenerali.com/media_storia-cultura/fake-news-giornali-e-moralismi-senza-piu-notizie/
La terza è un video della serie TED che può dare un respiro internazionale a questo tema intricato dal titolo “How to seek truth in the era of fake news. Si tratta di un’intervista molto chiara!
Ecco il capitolo sulla previdenza, riportato con il titolo “Regolarizzazione dei rapporti finanziari tra Stato e INPS”, riportato nel Rapporto sulla politica di bilancio 2018 pubblicato dall’UfficioParlamentare di Bilancio. LETTURA BREVE E INTERESSANTISSIMA!!
Regolarizzazione dei rapporti finanziari tra Stato e INPS
Il DDL di bilancio interviene a regolare i rapporti finanziari tra lo Stato e l’INPS in modo da ripristinare una corretta rappresentazione della situazione patrimoniale dell’Istituto previdenziale, attualmente gravata da una importante esposizione debitoria verso lo Stato, a cui fa fronte una rilevante esposizione creditoria.
In particolare, alla fine del 2015 l’INPS presentava nel suo bilancio un debito nei confronti dello Stato pari a 88,9 miliardi, corrispondente alla somma delle anticipazioni ricevute negli anni dal bilancio dello Stato. Contemporaneamente l’Istituto vantava crediti nei confronti del bilancio dello Stato per trasferimenti non erogati pari a 38,7 miliardi. Inoltre, la posizione dell’INPS nei confronti della Tesoreria comprendeva debiti, a fronte di anticipazioni di cassa erogate nel passato, per 32,2 miliardi e disponibilità liquide giacenti in Tesoreria per 37,7 miliardi.
L’esposizione debitoria dell’INPS verso lo Stato è in larga parte generata dal meccanismo di finanziamento della spesa previdenziale, basato solo in parte sul prelievo contributivo a carico degli assicurati, essendo la parte restante coperta mediante erogazione di risorse da parte dello Stato. La configurazione di queste ultime come anticipazioni, in luogo di trasferimenti, genera la formazione nel bilancio dell’INPS di una esposizione debitoria crescente verso lo Stato. Concorre inoltre ad aumentare tale esposizione debitoria il finanziamento mediante anticipazioni delle prestazioni assistenziali in caso di insufficienza delle dotazioni di bilancio dei corrispondenti capitoli di trasferimento o, in caso di tardiva rendicontazione da parte dell’INPS, delle prestazioni erogate. Nel caso delle prestazioni assistenziali, a fronte dell’esposizione debitoria dell’INPS per le anticipazioni ricevute si determina una corrispondente posizione creditoria per i trasferimenti da ricevere a fronte delle prestazioni erogate.
L’UPB ha recentemente evidenziato l’anomalia dei rapporti finanziari reciproci tra lo Stato e l’INPS201. Con riferimento allo stock accumulato di anticipazioni pregresse veniva proposto di operare una sterilizzazione della posizione debitoria dell’INPS verso lo Stato mediante compensazione tra partite debitorie e creditorie reciproche e attraverso il ripiano delle restanti anticipazioni. Al fine di evitare il riformarsi in futuro di un debito dell’Istituto verso lo Stato, veniva inoltre proposto di finanziare le diverse gestioni – sia di carattere assistenziale che previdenziale, per la parte non coperta da versamenti contributivi – mediante una più adeguata dotazione dei capitoli del bilancio dello Stato, limitando l’utilizzo delle anticipazioni ai soli casi di sfasamenti temporali di natura transitoria nei rapporti finanziari tra Stato e INPS. L’incidenza di tali sfasamenti potrebbe poi essere limitata accelerando i tempi di rendicontazione delle gestioni assistenziali per evitare la perenzione dei relativi stanziamenti nel bilancio dello Stato.
201 Ufficio parlamentare del Bilancio (2017), “Rapporti finanziari tra bilancio dell’INPS e bilancio dello Stato”, Flash n. 6 del 3 agosto 2017.
Il DDL di bilancio interviene in proposito stabilendo che le anticipazioni di bilancio iscritte quali debiti verso lo Stato nel rendiconto 2015 dell’Istituto previdenziale, per un totale di 88,9 miliardi di euro, vengano compensate con i crediti verso lo Stato, risultanti dal medesimo rendiconto, fino a concorrenza dell’importo di 29,4 miliardi di euro. Per la parte eccedente le anticipazioni si devono intendere erogate a titolo definitivo, vale a dire non se ne chiede il rimborso o la compensazione con altrettanti crediti. Con provvedimento attuativo saranno definiti i capitoli del bilancio dell’INPS per i quali viene effettuata la compensazione nonché i criteri e le gestioni previdenziali a cui attribuire i trasferimenti definitivi.
Tale intervento appare idoneo a regolarizzare i rapporti pregressi, ma potrebbe non risultare sufficiente a evitare che il problema si riproponga in futuro.
Sul fronte delle gestioni assistenziali, il cui finanziamento è posto in parte a carico del bilancio dello Stato, il problema richiederebbe una più accurata definizione delle dotazioni dei capitoli di bilancio dello Stato rispetto alle prestazioni riconosciute ai beneficiari.
Sul fronte delle gestioni previdenziali resta invece da valutare come si coordini il principio del loro equilibrio finanziario202, che esclude il finanziamento a carico dello Stato degli squilibri del sistema previdenziale, con la situazione reale che vede un perdurante squilibrio tra l’ammontare dei saldi delle gestioni in avanzo e quello delle gestioni in disavanzo, con la preponderanza di queste ultime. Qualora perduri la prassi attuata in passato di finanziare tale sbilancio mediante anticipazioni, è prevedibile che possa formarsi di nuovo un’esposizione debitoria dell’INPS verso lo Stato meramente rappresentativa dello sbilancio tra i diritti soggettivi dei beneficiari e gli obblighi contributivi definiti dalla legge.
Siamo in campagna elettorale e, quindi, il momento migliore (sic!) per fare ulteriore confusione sulle pensioni soffiando sul fuoco del “conflitto tra generazioni”: l’antica arte del divide et impera.
Lorenzo Stevanato, già giudice amministrativo, chiarisce ulteriormente il tema.
QUELLO CHE TUTTI DOVREBBERO SAPERE
Che le pensioni (ed i pensionati) siano nell’occhio del mirino del Governo, è un fatto incontestabile.
Contributi di solidarietà e blocchi, totali o parziali, delle rivalutazioni pensionistiche sono un dato di fatto che dimostra ampiamente l’assunto. Non è tutto.
Esponenti del Governo, forze politiche, consulenti economici e fiancheggiatori vari del partito di maggioranza relativa prospettano ed auspicano interventi di ricalcolo delle pensioni (al ribasso, of course) o l’introduzione di nuovi e più estesi “contributi di solidarietà” o addirittura tagli lineari alle pensioni, sopra una certa soglia.
E’ stato anche presentato, da un variegato numero di parlamentari, un progetto di legge costituzionale (proposta di legge n. C3478) inteso a riformare l’art. 38 della Costituzione, all’evidente scopo di rimettere in discussione i trattamenti pensionistici già liquidati.
Tale proposta di modifica costituzionale, dietro il paravento letterale dell’equità, ragionevolezza e non discriminazione tra generazioni, alle quali si dovrebbe ispirare l’azione dell’INPS, nasconde il vero intento di sterilizzare il bilancio previdenziale: i pensionati più abbienti dovranno sacrificare una parte della loro pensione a favore di quelli più bisognosi, senza che il bilancio dello Stato pubblica ne sia gravato.
Sennonché i “pensionati poveri” sono quelli che non hanno versato contribuiti, o ne hanno versati pochi, in rapporto al trattamento goduto.
Non c’è niente di male, anzi, che sia garantita anche a loro una vecchiaia dignitosa.
Ma perché far pagare le loro pensioni ad altri pensionati, in una logica redistributiva, anziché dall’intera collettività attraverso la fiscalità generale? Si tratta, infatti, incontestabilmente di una spesa assistenziale e non previdenziale.
Ecco dunque, in tutta la sua gravità, il male che affligge il sistema previdenziale italiano: la commistione tra assistenza e previdenza.
Già, perché molti trattamenti pensionistici, erogati dall’INPS, sono poco o nulla sorretti da adeguata contribuzione: pensioni integrate al minimo, baby-pensioni e, in generale, pensioni assistenziali e sociali.
Ma anziché separare convenientemente le due categorie di spesa, si mantiene, anzi si aumenta la confusione tra esse.
Eppure, secondo l’art. 41 della legge n. 88 del 1989 , va assicurato l’equilibrio finanziario delle gestioni previdenziali. Dunque, il bilancio dello Stato non deve coprire con trasferimenti a carico della fiscalità generale la differenza tra uscite per prestazioni della previdenza ed entrate contributive: vanno invece adeguate le aliquote contributive.
Già, ma qual è il bilancio previdenziale?
Coerenza vuole che, in un sistema previdenziale a ripartizione come quello vigente, in cui i contributi incamerati in un determinato periodo vengono utilizzati per finanziare le pensioni erogate in quello stesso periodo, l’entità dei contributi sia proporzionalmente commisurata.
Ed è quello che prevede l’inapplicato (ma vigente) art. 41 della legge n. 88 del 1989, sopra menzionato.
Ovvio che, invece, questa coerenza viene scardinata dalla confusione tra erogazioni previdenziali ed assistenziali.
Oltretutto, la gestione assistenziale, pure affidata all’INPS, presenta contorni tutt’altro che ben definiti.
Il 3° comma, lett. c, dell’art. 37 della legge n. 88 del 1989 ci fa capire molte cose: una “quota parte” di TUTTE, INDISCRIMINATAMENTE, le pensioni è qualificata come assistenziale.
Si tratta di un dato puramente empirico e convenzionale.
In concreto, è stata fissata una certa cifra nel 1988 (16.504 miliardi di lire) rivalutata annualmente. Nel 2016 si è trattato di 20,3 miliardi di euro che sono stati trasferiti all’INPS dal bilancio dello Stato, per coprire il disavanzo delle gestioni previdenziali (vd., sul punto, la relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, flash n. 6, reperibile sul sito istituzionale www.upbilancio.it).
Ma quali sono le pensioni che hanno bisogno di questo sostegno assistenziale, e quali invece no?
Quali più e quali meno?
Non lo sappiamo.
E come si fa a stabilire se, e quanto, aumentare le aliquote contributive per mantenere in pareggio il bilancio previdenziale, ex art. 41 legge n. 88 del 1989?
Nemmeno possiamo saperlo, se non sappiamo precisamente qual è il bilancio (strettamente) previdenziale, nella descritta “confusione assistenziale”!
Il dibattito sulla sostenibilità del sistema di welfare italiano (sanità, previdenza, assistenza) è guidato da ideologia, strumentalizzazioni e notizie verosimili, ma false. In questo dibattito, il Presidente dell’INPS Boeri spicca per non fare il suo lavoro, ma per assumere posizioni politiche che dovrebbero essere del Governo. La separazione economico-finanziaria del sistema pensionistico da quello di assistenza sociale dovrebbe essere una priorità per uno Stato che non fosse dedito, come il nostro, al gioco delle tre carte!
La previdenza dovrebbe essere sostenuta dai contributi: essa costituisce ancora, almeno formalmente, una retribuzione differita. L’assistenza sociale dovrebbe essere sostenuta dalla tassazione ordinaria alla quale partecipano i cittadini in modo progressivo al crescere del loro reddito.
La maggior parte delle prestazioni dell’INPS sono di tipo assistenziale e sono economicamente sostenute da trasferimenti insufficienti dello Stato e abbondantemente integrate dai contributi che lavoratori e aziende pagano per sostenere la previdenza. Le stime sulla sostenibilità futura del sistema pensionistico vengono “affogate” nel calderone che include l’assistenza. Il risultato è che si presenta come insostenibile il sistema previdenziale, mentre la componente critica è quella assistenziale!
Di qui nasce il battage pubblicitario sulle pensioni d’oro (in un’audizione alla Camera del Deputati, il Commissario alla Spending Review Gutgeld ha affermato che le pensioni d’oro sono quelle superiori ai 2000-2500 euro lordi mensili!!!).
Riporto di seguito il suo ultimo post del 30 novembre nel quale illustra una proposta di legge di iniziativa popolare per separare appunto previdenza da assistenza. Dopo le elezioni politiche le azioni si faranno battenti!
Eccolo!
“Parallelamente alla petizione, con cui si chiede che previdenza ed assistenza siano effettivamente separate, per le ovvie ragioni già esposte, si è pensato anche ad un progetto di legge di iniziativa popolare.
Potrebbe essere questo:
PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE RECANTE “ISTITUZIONE DELL’AGENZIA NAZIONALE PER IL WELFARE ASSISTENZIALE”
Articolo unico
In attuazione dell’art. 38, comma 4, della Costituzione è istituita l’agenzia nazionale per il welfare assistenziale (ANWA), dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e sottoposta alla vigilanza del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con il compito di assumere tutte le funzioni economiche assistenziali svolte dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).
In particolare l’ANWA ha il compito di:
a) erogare le prestazioni elencate dal comma 3 dell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, e successive modificazioni;
b) pagare tutte le pensioni totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale;
c) in generale, erogare tutte le prestazioni economiche assistenziali in favore di cittadini non abbienti e/o bisognosi, previste dalla legge;
d) esprimere pareri ed avanzare proposte al Governo in materia di prestazioni assistenziali economiche;
e) svolgere l’attività di controllo dei requisiti che danno titolo alle anzidette prestazioni.
Con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, da emanare nel termine di novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono disciplinati l’organizzazione ed il funzionamento dell’agenzia, in modo da realizzare il trasferimento ad essa del personale e delle strutture materiali che l’INPS destina alle funzioni elencate dall’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88.
Il direttore dell’agenzia è nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, tra esperti di riconosciuta competenza in materia di organizzazione e programmazione del welfare, anche estranei all’amministrazione.
Il direttore è assunto con contratto di diritto privato di durata quinquennale, non rinnovabile.
L’agenzia si avvale di personale trasferito dall’INPS. La dotazione organica è fissata con il decreto indicato al precedente comma 3.
La dotazione finanziaria dell’agenzia è determinata dai trasferimenti disposti dallo Stato e fissati annualmente con la legge di bilancio, nonché dai contributi dei datori di lavoro relativamente alle pensioni assistite ed ai trattamenti di integrazione salariale.
Il Governo è delegato ad emanare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo di riordino dei contenuti dell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, con conseguente abrogazione dell’art. 37 stesso, attenendosi al principio e criterio direttivo secondo cui la separazione di assistenza e previdenza sia completamente attuata ed all’INPS residui la sola funzione previdenziale, mentre all’ANWA sia attribuita interamente la funzione assistenziale.
Questa la relazione accompagnatoria:
RELAZIONE ALLA PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE RECANTE “ISTITUZIONE DELL’AGENZIA NAZIONALE PER IL WELFARE ASSISTENZIALE”
Con l’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, è stato introdotto il principio di separazione, nel bilancio dell’INPS, del sistema della previdenza da quello dell’assistenza, mediante l’istituzione di una gestione dei trattamenti assistenziali (GIAS) finanziato dalla fiscalità generale.
La GIAS ricomprende prestazioni esclusivamente assistenziali (come le pensioni di invalidità) ma anche prestazioni a carattere misto, cioè previdenziali coperte solo parzialmente dai contributi versati, come ad esempio le pensioni integrate al minimo.
L’esigenza della separazione nasceva e nasce dal fatto che entrambe le funzioni sono concentrate in un unico ente, l’INPS, il più grande istituto previdenziale europeo, che tuttavia ha nel suo bilancio anche una spesa assistenziale di oltre trenta miliardi di euro.
Il principio di separazione è certamente indispensabile per garantire trasparenza e chiarezza del bilancio ed evitare la confusione tra i due diversi sistemi.
In realtà, la commistione tra assistenza e previdenza non è stata affatto eliminata, nemmeno dopo l’introduzione dell’art. 37 della legge n. 88 del 1989.
Invero, nel bilancio dell’INPS continuano a circolare cifre poco chiare e, non di rado, le spese assistenziali sono contenute all’interno di voci previdenziali, e viceversa.
Ciò significa che i contributi che vengono versati per garantire in futuro i trattamenti pensionistici finiscono in quest’unico bilancio in cui L’INPS si destreggia per poter erogare anche le prestazioni assistenziali.
Da ciò deriva, inevitabilmente, l’assorbimento di risorse contributive nelle erogazioni assistenziali e sociali.
L’INPS, tuttavia, ha il precipuo compito di garantire che le prestazioni previdenziali siano corrisposte a coloro che hanno versato i relativi contributi confidando nella loro funzione assicurativa e che, quindi, tali contributi siano esclusivamente a ciò destinati; risulta invece del tutto improprio che tali contribuzioni finiscano per essere destinate anche a finanziare prestazioni assistenziali.
Le spese di carattere assistenziale (anche quando si tratti degli incrementi pensionistici non coperti dai contributi, come le integrazioni al minimo) vanno invece poste esclusivamente a carico della fiscalità generale, senza che si attinga ai contributi versati dagli aventi titolo alle prestazioni previdenziali.
Se così non fosse, il principio di uguaglianza fissato dall’art. 3 della Costituzione verrebbe violato, in quanto le prestazioni assistenziali graverebbero ingiustamente su una platea limitata di soggetti, e cioè di coloro che hanno versato e versano contributi per garantirsi il trattamento
previdenziale della vecchiaia.
Inoltre, un tale risultato si rivela altresì in contrasto con altri principi di rango costituzionale, come quello che il trattamento di quiescenza è configurabile quale retribuzione differita, secondo il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) nonché con il principio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.) (cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010).
I trattamenti pensionistici rappresentano la “restituzione” assicurativa, sotto forma di assegno mensile, di contributi versati e via via incamerati dall’ente erogatore durante la vita lavorativa. A questa “restituzione” assicurativa il pensionato acquisisce un vero e proprio diritto che sarebbe violato se quei contributi venissero (come vengono) dirottati per finanziare anche le erogazioni assistenziali.
Il fenomeno è di entità niente affatto irrilevante.
Si pensi che circa 4 milioni di soggetti ricevono pensioni assistenziali (assegni sociali, di invalidità, etc.) e quasi 5 milioni di soggetti godono delle integrazioni al minimo e delle maggiorazioni sociali, per un totale di circa 9 milioni di beneficiari che rappresentano circa la metà di tutti i pensionati.
Nell’opacità del bilancio INPS onnicomprensivo queste pensioni finiscono per essere parzialmente “pagate” anche da coloro che hanno versato e versano i contributi assicurativi per la propria pensione e ciò, rendendo insostenibile il sistema, ne minaccia paradossalmente la corresponsione.
Questo purtroppo è ciò che avviene quando vi è commistione tra le due funzioni e tra le relative poste di bilancio.
Occorre dunque che le prestazioni di carattere assistenziale (come le integrazioni al minimo, le maggiorazioni sociali e le pensioni di invalidità) non vengano mai confuse nella spesa pensionistica.
Vi è un’ulteriore decisiva ragione che dovrebbe spingere a realizzare la separazione.
Invero, la spesa effettiva per pensioni, al netto delle tasse e delle ingenti somme (oltre 30 miliardi di euro) della gestione assistenziale GIAS, è interamente coperta dalle entrate contributive, a dimostrazione che con le riforme previdenziali via via attuate, fino alla riforma Fornero, il sistema previdenziale italiano non è affatto in passivo ma è perfettamente sostenibile.
Il sistema pensionistico nel nostro Paese poteva definirsi “non sostenibile”, a causa dell’invecchiamento della popolazione e della la bassa età effettiva di uscita dal mercato del lavoro, prima delle riforme Dini e Fornero, ma non certo dopo tali riforme.
Ed infatti, la spesa pensionistica “pura” – detratta anche la tassazione che grava sulle pensioni – con la separazione dalla spesa assistenziale scenderebbe al 10% del PIL, in linea con quella degli altri Paesi comunitari.
Invece, nel confronto con gli altri Paesi europei l’Italia si posiziona, a causa dell’anzidetta commistione, agli ultimi posti delle classifiche OCSE ed Eurostat in tema di spesa pensionistica, con tutte le relative conseguenze negative in termini, non solo di immagine, ma anche di “attenzione” comunitaria alle dinamiche fuori controllo della spesa pubblica ed al bilancio dello Stato, già gravemente zavorrato dal debito pubblico.
Appare quindi opportuno che si proceda ad una riforma radicale della gestione assistenziale svolta dall’INPS.
Per ottenere ciò, è anzitutto necessario che tale funzione sia coerentemente sottratta all’INPS, il quale deve esclusivamente svolgere la funzione previdenziale assicurativa che per legge gli appartiene, e che le erogazioni assistenziali siano invece affidate ad un organismo diverso, convenientemente attrezzato ad occuparsene in maniera equa ed efficace.
La presente proposta di legge popolare è dunque intesa all’istituzione di un’agenzia, posta sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, alla quale saranno affidate le prestazioni attualmente elencate nell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88 e ss. mm.
Conseguentemente, l’agenzia avrà altresì funzioni consultive e propositive nonché di controllo circa l’effettiva sussistenza dei requisiti che danno titolo, per i beneficiari, all’erogazione delle prestazioni economiche assistenziali.
Nello stesso tempo, la presente proposta di legge popolare prevede di conferire la delega legislativa al Governo affinché provveda al riordino delle varie voci della GIAS, in modo che i dati della spesa previdenziale e di quella assistenziale divengano certi e trasparenti, passaggio questo prioritario per qualsiasi intervento legislativo di riforma del sistema previdenziale che si voglia consapevolmente intraprendere.”
Seconda “puntata” dell’interessante analisi di Vitalba Azzolini: la tecnica e la politica non si incrociano e la misurazione è un’opinione … tutto conduce alla creazione all’italiana del suddito inconsapevole.
In una “puntata” precedente (https://carlofavaretti.wordpress.com/2017/09/17/fatto-analisi-impatto-di-vitalbaa-su-newslist-it-di-masechi-da-leggere/) qui su List ho provato a spiegare la “cultura” degli impatti: vale a dire quel metodo di regolamentazione che impone al governo e ad altre autorità di definire con trasparenza gli obiettivi perseguiti, di valutare ex ante comparativamente gli effetti di diverse opzioni normative (inclusa quella di non intervento), di fissare indicatori di risultato per vagliare ex post se quella prescelta è stata efficace, nonché di redigere un’apposita relazione con tali contenuti. Non è solo un metodo di better regulation, ma anche il modo per inchiodare i governanti alle responsabilità conseguenti ai propri annunci, vincolandoli a rendicontarne i risultati. Sarà per questo che AIR e VIR (analisi e verifica di impatto della regolamentazione) piacciono poco a politici e supporter, nonostante siano obbligatorie ex lege da anni. Detto ciò, può essere utile esporre i settori in cui l’analisi va fatta, verificando se e come “funzioni”: insomma, una verifica di impatto sull’analisi di impatto, e non è un gioco di parole.
Ai sensi di legge, la valutazione ex ante degli impatti va svolta secondo direttrici ben precise: se la futura normativa ha fra i suoi destinatari piccole e medie imprese, ne vanno analizzati gli eventuali effetti distorsivi o sproporzionati rispetto alle imprese di più grandi dimensioni; inoltre, devono essere misurati eventuali nuovi adempimenti a carico di cittadini e imprese; serve altresì stimare l’incidenza delle diverse opzioni di regolazione sulle dinamiche concorrenziali del mercato, scegliendo quella che le sacrifica meno; in caso di recepimento di normative comunitarie, occorre verificare che non siano introdotti obblighi superiori a quelli richiesti da tali normative (c.d. gold-plating). E’ importante poi valutare preventivamente anche le modalità attuative – strumenti, risorse e mezzi – dell’intervento di regolamentazione. Questo è quanto espressamente (e teoricamente) prescritto. Ma i legislatori ne tengono realmente conto?
Partiamo dal primo punto. È’ necessario esaminare che nuove disposizioni non impongano pesi burocratici gravanti in misura maggiore sulle piccole e medie imprese, poiché “l’evidenza empirica mostra in modo inequivocabile come gli oneri (…) legati all’adempimento di una norma siano, in proporzione, molto più elevati per le PMI rispetto alle imprese di taglia media e grande” (Formez PA). Al riguardo, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato osserva che “il cammino intrapreso verso l’adozione di regolazioni che ‘pensano in piccolo’ potrà produrre risultati positivi per (…) le piccole e medie imprese, a condizione che i modelli di analisi d’impatto vengano attuati in modo concreto e sostanziale”. E, infatti, l’UE ha predisposto da tempo un test (c.d. test PMI) utile a stimare gli impatti – appunto – degli adempimenti amministrativi sulle imprese di dimensioni minori. Ma di questo test non sembra esservi traccia nelle relazioni AIR nazionali. Le conseguenze sono palesi: un recente studio di Assolombarda in tema di oneri amministrativi nei settori ambiente, edilizia, fisco ecc. dimostra che i costi delle relative procedure (in termini di percentuale sul fatturato e di ore per addetto) continuano a incidere più sulle PMI che sulle grandi imprese. E di studi che attestano queste evidenze ve ne sono comunque molti altri.
Circa il secondo punto, cioè la stima – in sede di elaborazione di nuove normative – degli oneri burocratici gravanti su cittadini e imprese (con quantificazione dei relativi costi), essa è funzionale al c.d. budget regolatorio, previsto ex lege dal 2012. Si tratta di un meccanismo di compensazione c.d. one-in-one-out, per cui non possono essere introdotti nuovi oneri amministrativi senza contestualmente ridurne o eliminarne altri. Questo principio viene osservato? La risposta la fornisce il Consiglio di Stato, il quale pochi mesi fa ha rilevato che, mentre in altri Paesi si stanno sfoltendo molti pesi, elaborando sistemi one-in-two-out o addirittura one-in-three-out, la regola in Italia è pressoché ignorata. Rimando a quanto ho scritto altrove, aggiungendo che, nonostante recenti misure tese a semplificazioni varie, permane “una grave incertezza sul regime amministrativo delle singole attività, sulla stabilità dei titoli abilitativi (impliciti o presunti), sui tempi di definizione delle procedure” (C. Deodato), nonché su molto altro.
Il terzo punto è il full competition assessment, cioè la quantificazione degli impatti concorrenziali, utile a evitare ostacoli ingiustificati all’esercizio delle attività economiche: ma chi l’ha visto? E’ lo stesso Nucleo AIR presso la presidenza del Consiglio ad attestarlo: in sede di elaborazione di nuove regolamentazioni, ci si limita a svolgere “considerazioni apodittiche sull’intervento come ausilio alla competitività e nessuna considerazione specifica laddove l’intervento limiti o distorca il mercato”. Serve altro per dimostrare il senso (mancante) dei regolatori nazionali per la competizione fra privati? Forse sì: ad esempio, ricordare il non lusinghiero 54° posto che l’Italia occupa attualmente nell’Indice Libertà Economiche elaborato dal Fraser Institute (era al 24° posto nel 2000); o la circostanza che per partorire la prima (rachitica) normativa sulla concorrenza sono serviti 8 anni dalla legge istitutiva e circa 900 giorni di discussione.
Per quanto poi attiene al divieto di gold-plating, nelle relazioni AIR i regolatori dovrebbero dare conto del fatto che, nella trasposizione di discipline comunitarie nell’ordinamento interno, non hanno immotivatamente previsto oneri, requisiti, procedure ecc. più gravosi di quelli contenuti nelle discipline medesime. Questo limite viene rispettato? I dati empirici sono chiari: “il 32% (o 3,5% del PIL) dei costi amministrativi di provenienza europea a carico di un’impresa sono da ascriversi, per la stessa Commissione, all’inefficace recepimento del diritto europeo negli Stati membri, e il 4% di essi al solo gold-plating” (E. Ojetti). Inoltre, basta leggere qualche relazione di analisi di impatto nazionale per accertare che non viene fatto un esame attento e puntuale sul gold-plating e che, pertanto, il rischio di violazione è molto alto.
Infine, non mi dilungherò sulla valutazione di strumenti e modalità di implementazione di nuove discipline, rimandando a quanto scritto altrove: in sintesi, come può pensarsi che qualcuno la svolga ex ante, se in Italia non esiste un’autorità preposta a verificare ex post l’effettiva attuazione di “politiche” e relative normative? Né mi dilungherò su analisi di impatto riguardanti profili quali il genere, la salute ecc., svolte in altri Paesi: a cosa servirebbe, se nel nostro le AIR non affrontano neanche quei pochi profili già previsti? A questo punto concludo. Le domande retoriche stanno diventando un po’ troppe.
Grande vittoria in Veneto, buon risultato in Lombardia. I referendum sull’autonomia avranno un forte impatto istituzionale. Zaia e Maroni alleati per il federalismo fiscale: “Chiederemo tutto”.
È cominciata la battaglia per le tasse del Nord. E quello che diceva Bossi trent’anni fa sull’autonomia fiscale da ieri sera ha un fatto politico sul quale costruire un percorso istituzionale. In Veneto e Lombardia il Nord ha votato per il Nord. Il risultato è netto. In Veneto affluenza al 60 per cento e Sì al 98 per cento; in Lombardia affluenza quasi al 40 per cento e Sì al 95 per cento. Si possono fare mille considerazioni sulle differenze tra i numeri delle due regioni, ma alla fine di tutto il giro, resta un fatto: un blocco socio-economico dell’Italia ha detto in maniera massiccia che è ora di finirla con la gestione romano-centrica del potere.
“È il Big Bang, apriremo il negoziato, chiederemo tutto”. Quando Luca Zaia (sopra, nella foto Ansa) ha cominciato a parlare, improvvisamente qualcuno a Roma ha realizzato che il plebiscito del referendum sull’autonomia in Veneto produce effetti immediati.
“Faremo insieme la battaglia del secolo”. Quando Roberto Maroni ha cominciato a sorridere, citare l’alleanza con Zaia, perfidamente ricordare che “nel paese del ministro Martina ha votato il 40 per cento degli elettori”, qualcuno a Roma ha realizzato che questa domenica non è stata come le altre, è successo qualcosa nella politica italiana.
List aveva anticipato questo scenario in piena estate, messo nero su biancoche i referendum di Lombardia e Veneto sarebbero stati una tappa importante del Grande Slam elettorale. È andata esattamente così. Il 2 settembre scorso su List abbiamo fatto l’analisi giusta e dunque possiamo ripubblicarla oggi, senza cambiamenti:
“Il cronista osserva una data sul taccuino: domenica 22 ottobre. È il giorno in cui Lombardia e Veneto apriranno i seggi per il voto consultivo sull’autonomia regionale. Sedici milioni di elettori, le due regioni che trainano il sistema produttivo italiano, un appuntamento che è chiaramente un altro passaggio di quello scenario di crisi istituzionale che Miglio aveva chiaramente dipinto nei suoi libri e nelle sue riflessioni. I benpensanti e quelli che tanto tutto passa dicono: “Non succederà niente”. No, cari, non è così, la doppia consultazione avrà invece un impatto politico enorme, quando il popolo vota succede sempre qualcosa. Proviamo a spacchettare lo scenario, seguite il titolare di List.
Voto doppio, un solo giorno. La notte del 22 ottobre apparirà chiaro che Lombardia e Veneto vivono in una dimensione diversa dal resto del paese. Il Nord farà una scelta per il Nord. È incredibile come questo aspetto sfugga ai più. Gli elettori non andranno alle urne “solo” per chiedere più autonomia (e parliamo già di una cosa che avrà conseguenze importanti), ma si sveglieranno la mattina con la convinzione e volontà di andare a dire che tra il Nord e il Sud la distanza è grande e la misura è colma.
Non succederà niente? È una pia illusione. Non ci vuole l’immaginazione di Salvador Dalì per vedere la scena: vince il sì in maniera schiacciante, dichiarazioni su tutte le televisioni in contemporanea dei due presidenti, Maroni e Zaia, trionfo della Lega (che ben governa le due regioni, sia detto chiaramente), Salvini carico a pallettoni scartavetra la sua dichiarazione sul “popolo del Nord”, Forza Italia partecipa alla festa, il Pd si ritrova all’angolo con l’apertura ufficiale della Questione Settentrionale dopo decenni di zero tituli sulla Questione Meridionale. Sarà uno tsunami della comunicazione. E la comunicazione è politica.
Il 22 ottobre si aprirà ufficialmente la Questione settentrionale che Umberto Bossi aveva individuato con grande chiarezza nei primi anni Novanta. È una parabola politica che continua perché le intuizioni e analisi fatte in quel tempo dal Senatur e da Miglio erano corrette e sono non solo ancora in piedi, ma si presentano in forma sempre più grave. Cosa diceva Bossi? Il titolare di List tira fuori dalla sua libreria un discorso parlamentare del 1993, un gioiellino se lo confrontiamo con quello che passa oggi il Parlamento. I referendum promossi da Mario Segni e dai Radicali (eccolo, il voto) hanno avuto un esito travolgente (il segnale politico) e il presidente del Consiglio Giuliano Amato presenta le sue dimissioni. Il paese è in piena emergenza, si prepara l’arrivo del governo di Carlo Azeglio Ciampi. Camera dei Deputati, 22 aprile 1993, seduta pomeridiana, presidenza di Giorgio Napolitano, prende la parola Umberto Bossi:
“Non voglio insistere sul fatto che il federalismo fu l’anima del nostro Risorgimento. A tutti coloro che in malafede combattono l’autonomia regionale pur dichiarandosi a parole favorevoli, rammenterò le dichiarazioni di Salvemini, che non era lombardo: se non sbaglio era nato a Molfetta, in Puglia. «Oggi l’intervento del Governo centrale» — sono parole di Salvemini — «è sempre a vantaggio dei più forti, cioè di quelli che dispongono di maggior numero di voti alla Camera e di un regime unitario. Il Governo centrale non potrebbe fare diversamente, per non rimanere in minoranza nelle votazioni di fiducia. In un regime federale, invece, qualora le lotte fra i partiti di una regione degenerassero in modo da richiedere l’intervento delle altre regioni, di qualunque colore siano, non avendo interessi diretti nelle lotte altrui ed essendo interessati a ristablire saldamente l’ordine turbato, deciderebbero secondo giustizia e darebbero a ciascuna il suo». Non basta, incalza Salvemini, che l’idea federalista venga affermata nelle pagine di un libro; bisogna che diventi programma politico dei partiti democratici. Il federalismo è economicamente utile alle masse del sud, politicamente utile ai democratici del nord, moralmente utile a tutta l’Italia”.
Interessante. E sorprendentemente “colto” e attuale. Ora fate il giochino di immaginare quali saranno le parole di Maroni, Zaia e Salvini alla vista dell’esito del referendum. Il passaggio del 22 ottobre non sarà una scampagnata nella festa popolare del voto, ma l’accelerazione di un processo di crisi che non ha avuto una risposta negli ultimi trent’anni”.
È andata così. List ha i piedi per terra, fa analisi prive di moral bias, pregiudizio.Allo scenario che avevamo anticipato il 2 settembre dobbiamo solo aggiungere l’aggiornamento in presa diretta, le note svelte che danno quasi sempre il ritorno giusto di quel che è accaduto, la prima registrazione della scossa, quella a caldo a cui segue poi l’analisi a freddo. Sul taccuino del titolare di List la sintesi è questa: trionfo della Lega, è una spinta al centrodestra, Matteo Salvini acquista ancora più peso (e da oggi ha un antagonista interno, Luca Zaia), Silvio Berlusconi se la cava, ma non è lui il vincitore di questo giro, il Partito democratico è in grave difficoltà, appare sconfitto nonostante abbia appoggiato il referendum, Matteo Renzi fa il capotreno ma è completamente fuori dai binari del Nord, fase Tafazzi del ministro democratico Maurizio Martina che ha invitato all’astensione (non ne azzeccano mai una, incredibile), il Movimento 5Stelle tiene un basso profilo ma ha un problema di lettura e comprensione dell’agenda settentrionale, siamo all’apertura ufficiale della questione fiscale sul piano istituzionale che significa una sola grande cosa fin dagli albori degli Stati nazionali: “tasse”.
Squadernata così, la giornata è di quelle memorabili e infatti lo è. È la pistola dello starter che fa bum! sulla pista dei cento metri dove tutta la tensione accumulata si scarica nello scatto bruciante. Bang! è partita alla grande la campagna elettorale. Il Grande Slam elettorale ha il vincitore della prima tappa: il centrodestra. Il 5 novembre arriva il secondo appuntamento, il voto per la Regione Sicilia, non c’è un sondaggio che dia una sola chance al Pd. Matteo Renzi suda freddo. Brividi.
“Io non perdo mai. Certe volte vinco, altre volte imparo.” Questa frase di Nelson Mandela è riportata nella quarta di copertina di un aureo libretto di Charles Pépin: Il potere magico del fallimento: perché la sconfitta ci rende liberi edito da Garzanti.
La vera crescita è sempre costruita attraverso errori, sconfitte e delusioni.
Il messaggio dell’autore è profondo: per diventare quelli che siamo ed esprimere il nostro potenziale dobbiamo accettare l’esperienza del rischio e non limitarci a scegliere tra alternative note e rassicuranti.
Molto interessante è l’analisi che egli fa sulla cultura francese (molto simile a quella italiana secondo me) rispetto a quella anglosassone, in particolare, americana. Per francesi (e italiani) il fallimento è una colpa di cui vergognarsi. Per gli americani è un’esperienza e un’opportunità.
This is the text of a lecture delivered at the Lowy Institute Media Award dinner in Sydney, Australia, on Saturday, Sept. 23. The award recognizes excellence in Australian foreign affairs journalism.
Let me begin with thanks to the Lowy Institute for bringing me all the way to Sydney and doing me the honor of hosting me here this evening.
I’m aware of the controversy that has gone with my selection as your speaker. I respect the wishes of the Colvin family and join in honoring Mark Colvin’s memory as a courageous foreign correspondent and an extraordinary writer and broadcaster. And I’d particularly like to thank Michael Fullilove for not rescinding the invitation.
This has become the depressing trend on American university campuses, where the roster of disinvited speakers and forced cancellations includes former Secretaries of State Henry Kissinger and Condoleezza Rice, former Harvard University President Larry Summers, actor Alec Baldwin, human-rights activist Ayaan Hirsi Ali, DNA co-discoverer James Watson, Indian Prime Minister Narendra Modi, filmmaker Michael Moore, conservative Pulitzer Prize-winning columnist George Will and liberal Pulitzer Prize-winning columnist Anna Quindlen, to name just a few.
So illustrious is the list that, on second thought, I’m beginning to regret that you didn’t disinvite me after all.
The title of my talk tonight is “The Dying Art of Disagreement.” This is a subject that is dear to me — literally dear — since disagreement is the way in which I have always earned a living. Disagreement is dear to me, too, because it is the most vital ingredient of any decent society.
To say the words, “I agree” — whether it’s agreeing to join an organization, or submit to a political authority, or subscribe to a religious faith — may be the basis of every community.
But to say, I disagree; I refuse; you’re wrong; etiam si omnes — ego non — these are the words that define our individuality, give us our freedom, enjoin our tolerance, enlarge our perspectives, seize our attention, energize our progress, make our democracies real, and give hope and courage to oppressed people everywhere. Galileo and Darwin; Mandela, Havel, and Liu Xiaobo; Rosa Parks and Natan Sharansky — such are the ranks of those who disagree.
And the problem, as I see it, is that we’re failing at the task.
This is a puzzle. At least as far as far as the United States is concerned, Americans have rarely disagreed more in recent decades.
We disagree about racial issues, bathroom policies, health care laws, and, of course, the 45th president. We express our disagreements in radio and cable TV rants in ways that are increasingly virulent; street and campus protests that are increasingly violent; and personal conversations that are increasingly embittering.
This is yet another age in which we judge one another morally depending on where we stand politically.
Nor is this just an impression of the moment. Extensive survey data show that Republicans are much more right-leaning than they were twenty years ago, Democrats much more left-leaning, and both sides much more likely to see the other as a mortal threat to the nation’s welfare.
The polarization is geographic, as more people live in states and communities where their neighbors are much likelier to share their politics.
The polarization is personal: Fully 50 percent of Republicans would not want their child to marry a Democrat, and nearly a third of Democrats return the sentiment. Interparty marriage has taken the place of interracial marriage as a family taboo.
Finally the polarization is electronic and digital, as Americans increasingly inhabit the filter bubbles of news and social media that correspond to their ideological affinities. We no longer just have our own opinions. We also have our separate “facts,” often the result of what different media outlets consider newsworthy. In the last election, fully 40 percent of Trump voters named Fox News as their chief source of news.
Thanks a bunch for that one, Australia.
It’s usually the case that the more we do something, the better we are at it. Instead, we’re like Casanovas in reverse: the more we do it, the worse we’re at it. Our disagreements may frequently hoarsen our voices, but they rarely sharpen our thinking, much less change our minds.
It behooves us to wonder why.
* * *
Thirty years ago, in 1987, a philosophy professor at the University of Chicago named Allan Bloom — at the time best known for his graceful translations of Plato’s “Republic” and Rousseau’s “Emile” — published a learned polemic about the state of higher education in the United States. It was called “The Closing of the American Mind.”
The book appeared when I was in high school, and I struggled to make my way through a text thick with references to Plato, Weber, Heidegger and Strauss. But I got the gist — and the gist was that I’d better enroll in the University of Chicago and read the great books. That is what I did.
What was it that one learned through a great books curriculum? Certainly not “conservatism” in any contemporary American sense of the term. We were not taught to become American patriots, or religious pietists, or to worship what Rudyard Kipling called “the Gods of the Market Place.” We were not instructed in the evils of Marxism, or the glories of capitalism, or even the superiority of Western civilization.
As I think about it, I’m not sure we were taught anything at all. What we did was read books that raised serious questions about the human condition, and which invited us to attempt to ask serious questions of our own. Education, in this sense, wasn’t a “teaching” with any fixed lesson. It was an exercise in interrogation.
To listen and understand; to question and disagree; to treat no proposition as sacred and no objection as impious; to be willing to entertain unpopular ideas and cultivate the habits of an open mind — this is what I was encouraged to do by my teachers at the University of Chicago.
It’s what used to be called a liberal education.
The University of Chicago showed us something else: that every great idea is really just a spectacular disagreement with some other great idea.
Socrates quarrels with Homer. Aristotle quarrels with Plato. Locke quarrels with Hobbes and Rousseau quarrels with them both. Nietzsche quarrels with everyone. Wittgenstein quarrels with himself.
These quarrels are never personal. Nor are they particularly political, at least in the ordinary sense of politics. Sometimes they take place over the distance of decades, even centuries.
Most importantly, they are never based on a misunderstanding. On the contrary, the disagreements arise from perfect comprehension; from having chewed over the ideas of your intellectual opponent so thoroughly that you can properly spit them out.
In other words, to disagree well you must first understand well. You have to read deeply, listen carefully, watch closely. You need to grant your adversary moral respect; give him the intellectual benefit of doubt; have sympathy for his motives and participate empathically with his line of reasoning. And you need to allow for the possibility that you might yet be persuaded of what he has to say.
“The Closing of the American Mind” took its place in the tradition of these quarrels. Since the 1960s it had been the vogue in American universities to treat the so-called “Dead White European Males” of the Western canon as agents of social and political oppression. Allan Bloom insisted that, to the contrary, they were the best possible instruments of spiritual liberation.
He also insisted that to sustain liberal democracy you needed liberally educated people. This, at least, should not have been controversial. For free societies to function, the idea of open-mindedness can’t simply be a catchphrase or a dogma. It needs to be a personal habit, most of all when it comes to preserving an open mind toward those with whom we disagree.
* * *
That habit was no longer being exercised much 30 years ago. And if you’ve followed the news from American campuses in recent years, things have become a lot worse.
According to a new survey from the Brookings Institution, a plurality of college students today — fully 44 percent — do not believe the First Amendment to the U.S. Constitution protects so-called “hate speech,” when of course it absolutely does. More shockingly, a narrow majority of students — 51 percent — think it is “acceptable” for a student group to shout down a speaker with whom they disagree. An astonishing 20 percent also agree that it’s acceptable to use violence to prevent a speaker from speaking.
These attitudes are being made plain nearly every week on one college campus or another.
There are speakers being shouted down by organized claques of hecklers — such was the experience of Israeli ambassador Michael Oren at the University of California, Irvine. Or speakers who require hundreds of thousands of dollars of security measures in order to appear on campus — such was the experience of conservative pundit Ben Shapiro earlier this month at Berkeley. Or speakers who are physically barred from reaching the auditorium — that’s what happened to Heather MacDonald at Claremont McKenna College in April. Or teachers who are humiliated by their students and hounded from their positions for allegedly hurting students’ feelings — that’s what happened to Erika and Nicholas Christakis of Yale.
And there is violence. Listen to a description from Middlebury College professor Allison Stanger of what happened when she invited the libertarian scholar Charles Murray to her school to give a talk in March:
The protesters succeeded in shutting down the lecture. We were forced to move to another site and broadcast our discussion via live stream, while activists who had figured out where we were banged on the windows and set off fire alarms. Afterward, as Dr. Murray and I left the building . . . a mob charged us.
Most of the hatred was focused on Dr. Murray, but when I took his right arm to shield him and to make sure we stayed together, the crowd turned on me. Someone pulled my hair, while others were shoving me. I feared for my life. Once we got into the car, protesters climbed on it, hitting the windows and rocking the vehicle whenever we stopped to avoid harming them. I am still wearing a neck brace, and spent a week in a dark room to recover from a concussion caused by the whiplash.
Middlebury is one of the most prestigious liberal-arts colleges in the United States, with an acceptance rate of just 16 percent and tuition fees of nearly $50,000 a year. How does an elite institution become a factory for junior totalitarians, so full of their own certitudes that they could indulge their taste for bullying and violence?
There’s no one answer. What’s clear is that the mis-education begins early. I was raised on the old-fashioned view that sticks and stones could break my bones but words would never hurt me. But today there’s a belief that since words can cause stress, and stress can have physiological effects, stressful words are tantamount to a form of violence. This is the age of protected feelings purchased at the cost of permanent infantilization.
The mis-education continues in grade school. As the Brookings findings indicate, younger Americans seem to have no grasp of what our First Amendment says, much less of the kind of speech it protects. This is a testimony to the collapse of civics education in the United States, creating the conditions that make young people uniquely susceptible to demagogy of the left- or right-wing varieties.
Then we get to college, where the dominant mode of politics is identity politics, and in which the primary test of an argument isn’t the quality of the thinking but the cultural, racial, or sexual standing of the person making it. As a woman of color I thinkX. As a gay man I think Y. As a person of privilege I apologize for Z. This is the baroque way Americans often speak these days. It is a way of replacing individual thought — with all the effort that actual thinking requires — with social identification — with all the attitude that attitudinizing requires.
In recent years, identity politics have become the moated castles from which we safeguard our feelings from hurt and our opinions from challenge. It is our “safe space.” But it is a safe space of a uniquely pernicious kind — a safe space fromthought, rather than a safe space for thought, to borrow a line I recently heard from Salman Rushdie.
Another consequence of identity politics is that it has made the distance between making an argument and causing offense terrifyingly short. Any argument that can be cast as insensitive or offensive to a given group of people isn’t treated as being merely wrong. Instead it is seen as immoral, and therefore unworthy of discussion or rebuttal.
The result is that the disagreements we need to have — and to have vigorously — are banished from the public square before they’re settled. People who might otherwise join a conversation to see where it might lead them choose instead to shrink from it, lest they say the “wrong” thing and be accused of some kind of political -ism or -phobia. For fear of causing offense, they forego the opportunity to be persuaded.
Take the arguments over same-sex marriage, which you are now debating in Australia. My own views in favor of same-sex marriage are well known, and I hope the Yes’s wins by a convincing margin.
But if I had to guess, I suspect the No’s will exceed whatever they are currently polling. That’s because the case for same-sex marriage is too often advanced not by reason, but merely by branding every opponent of it as a “bigot” — just because they are sticking to an opinion that was shared across the entire political spectrum only a few years ago. Few people like outing themselves as someone’s idea of a bigot, so they keep their opinions to themselves even when speaking to pollsters. That’s just what happened last year in the Brexit vote and the U.S. presidential election, and look where we are now.
If you want to make a winning argument for same-sex marriage, particularly against conservative opponents, make it on a conservative foundation: As a matter of individual freedom, and as an avenue toward moral responsibility and social respectability. The No’s will have a hard time arguing with that. But if you call them morons and Neanderthals, all you’ll get in return is their middle finger or their clenched fist.
One final point about identity politics: It’s a game at which two can play. In the United States, the so-called “alt-right” justifies its white-identity politics in terms that are coyly borrowed from the progressive left. One of the more dismaying features of last year’s election was the extent to which “white working class” became a catchall identity for people whose travails we were supposed to pity but whose habits or beliefs we were not supposed to criticize. The result was to give the Trump base a moral pass it did little to earn.
* * *
So here’s where we stand: Intelligent disagreement is the lifeblood of any thriving society. Yet we in the United States are raising a younger generation who have never been taught either the how or the why of disagreement, and who seem to think that free speech is a one-way right: Namely, their right to disinvite, shout down or abuse anyone they dislike, lest they run the risk of listening to that person — or even allowing someone else to listen. The results are evident in the parlous state of our universities, and the frayed edges of our democracies.
Can we do better?
This is supposed to be a lecture on the media, and I’d like to conclude this talk with a word about the role that editors and especially publishers can play in ways that might improve the state of public discussion rather than just reflect and accelerate its decline.
I began this talk by noting that Americans have rarely disagreed so vehemently about so much. On second thought, this isn’t the whole truth.
Yes, we disagree constantly. But what makes our disagreements so toxic is that we refuse to make eye contact with our opponents, or try to see things as they might, or find some middle ground.
Instead, we fight each other from the safe distance of our separate islands of ideology and identity and listen intently to echoes of ourselves. We take exaggerated and histrionic offense to whatever is said about us. We banish entire lines of thought and attempt to excommunicate all manner of people — your humble speaker included — without giving them so much as a cursory hearing.
The crucial prerequisite of intelligent disagreement — namely: shut up; listen up; pause and reconsider; and only then speak — is absent.
Perhaps the reason for this is that we have few obvious models for disagreeing well, and those we do have — such as the Intelligence Squared debates in New York and London or Fareed Zakaria’s show on CNN — cater to a sliver of elite tastes, like classical music.
Fox News and other partisan networks have demonstrated that the quickest route to huge profitability is to serve up a steady diet of high-carb, low-protein populist pap. Reasoned disagreement of the kind that could serve democracy well fails the market test. Those of us who otherwise believe in the virtues of unfettered capitalism should bear that fact in mind.
I do not believe the answer, at least in the U.S., lies in heavier investment in publicly sponsored television along the lines of the BBC. It too, suffers, from its own form of ideological conformism and journalistic groupthink, immunized from criticism due to its indifference to competition.
Nor do I believe the answer lies in a return to what in America used to be called the “Fairness Doctrine,” mandating equal time for different points of view. Free speech must ultimately be free, whether or not it’s fair.
But I do think there’s such a thing as private ownership in the public interest, and of fiduciary duties not only to shareholders but also to citizens. Journalism is not just any other business, like trucking or food services. Nations can have lousy food and exemplary government, as Great Britain demonstrated for most of the last century. They can also have great food and lousy government, as France has always demonstrated.
But no country can have good government, or a healthy public square, without high-quality journalism — journalism that can distinguish a fact from a belief and again from an opinion; that understands that the purpose of opinion isn’t to depart from facts but to use them as a bridge to a larger idea called “truth”; and that appreciates that truth is a large enough destination that, like Manhattan, it can be reached by many bridges of radically different designs. In other words, journalism that is grounded in facts while abounding in disagreements.
I believe it is still possible — and all the more necessary — for journalism to perform these functions, especially as the other institutions that were meant to do so have fallen short. But that requires proprietors and publishers who understand that their role ought not to be to push a party line, or be a slave to Google hits and Facebook ads, or provide a titillating kind of news entertainment, or help out a president or prime minister who they favor or who’s in trouble.
Their role is to clarify the terms of debate by championing aggressive and objective news reporting, and improve the quality of debate with commentary that opens minds and challenges assumptions rather than merely confirming them.
Come si dovrebbe legiferare e regolamentare in un paese civile, applicando continuamente AIR (analisi di impatto della regolamentazione) e VIR (verifica di impatto della regolamentazione) prima e dopo il processo decisionale.
L’articolo è l’ulteriore dimostrazione dell’interesse della newslist.it del grande Mario Sechi
Una vita sregolata
di Vitalba Azzollini
Il sottotitolo di questa newsletter – “Fatto. Analisi. Impatto” (ma anche “Agenda”, come dirò) – è un invito a nozze per chi si occupa di regolamentazione. Quelle tre parole sono, al contempo, presupposto e spinta per l’evoluzione dell’ordinamento. Mi spiego meglio. Il mutamento della realtà è costante, il diritto deve tenere lo stesso ritmo: l’analisi dei fatti, quindi del contesto, così come quella degli impatti delle norme che intervengono sui fatti, è imprescindibile per ogni buon regolatore. Può aggiungersi anche altro. La regolamentazione è un costo, poiché impone oneri e limiti ai soggetti privati, spese di elaborazione ed attuazione a quelli pubblici. Un rule maker realmente accountable deve essere in grado di giustificare in modo trasparente che, tra le diverse opzioni normative a sua disposizione, ha scelto quella più efficace in termini di costi e benefici, dati i fini perseguiti. La scarsa attenzione a questo processo di valutazione ponderata ha determinato nel tempo discipline sovrabbondanti, inutili o poco coerenti. E i conseguenti effetti negativi su produttività, concorrenza, competitività del sistema economico nazionale sono evidenti (e attestati da studi sull’attrattività di diversi Paesi).
Dunque, “Fatto. Analisi. Impatto” è, in sintesi, il metodo che i regolatori nazionali – specificamente governo e autorità “tecniche” – dovrebbero seguire (il condizionale è d’obbligo, come spiegherò oltre), non foss’altro perché è da anni un obbligo di legge. Come si attua in concreto questo metodo? Si attua, da un lato, mediante l’analisi di impatto della regolamentazione (AIR), strumento che serve a definire esattamente il problema da risolvere; individuare gli obiettivi perseguiti e costruire indicatori di carattere quantitativo che consentano di verificarne il grado di raggiungimento; consultare gli stakeholder; esaminare le varie opzioni di intervento (inclusa la cd. “opzione zero”, ossia il non intervento); comparare i vantaggi e gli svantaggi di ognuna di tali opzioni, considerandone gli effetti concorrenziali sul mercato e quantificandone il “prezzo” per cittadini e imprese; delineare un attendibile scenario del futuro funzionamento dell’opzione selezionata, soprattutto dei suoi possibili effetti inattesi o indesiderati, sulla base dei dati disponibili al momento della sua scelta. Dall’altro lato, il metodo citato si attua mediante la verifica di impatto della regolamentazione (VIR), che serve per vagliare il reale grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati, misurato sulla base degli indicatori predefiniti; “manutenere” le leggi vigenti, onde permetterne nel tempo la correzione a seguito di eventuali disfunzioni o l’aggiornamento in relazione a sopravvenuti mutamenti fattuali e giuridici; abrogare le norme non più necessarie.
Ricapitolando, il metodo riassunto in “Fatto. Analisi. Impatto” – valutazione ex ante dell’adeguatezza della regolamentazione ed ex postdella sua concreta e perdurante efficacia – serve non solo a tenere l’ordinamento al passo di una realtà in costante trasformazione e a imporre ai regolatori di giustificare le proprie scelte in maniera trasparente, ma a garantire il buon funzionamento delle leggi. Quindi, è un metodo idoneo ad assicurare una regolamentazione di qualità. Come il Consiglio di Stato ha evidenziato in un recente parere – ove riassume i numerosi interventi in tema di better regulation da parte del legislatore nazionale, nonché dell’Unione Europea e dell’OCSE – “una norma ‘scritta bene’, che rispetti i requisiti di ‘qualità’ (…) in termini di consapevolezza dell’impatto su cittadini e imprese, reca un beneficio ulteriore – e costi sociali minori – rispetto ai benefici che il suo contenuto ‘di merito’ già prevede”. In altre parole, la valutazione degli impatti, garantendo la qualità delle regole, offre un “valore aggiunto” economicamente stimabile in termini di “maggiore efficacia, efficienza, sostenibilità e ‘durabilità’ delle normative”.
“Fatto. Analisi. Impatto” è il metodo che i regolatori nazionali dovrebbero seguire, dicevo usando scientemente il condizionale. Ne spiego la ragione. Come rilevato sempre dal Consiglio di Stato – e come si legge puntualmente nella Relazione sullo stato di attuazione della analisi di impatto della regolamentazione, presentata ogni anno dal Governo al Parlamento – le relazioni AIR sono il più delle volte poco approfondite, prive degli indicatori quantitativi utili a consentire la verifica dell’effettivo impatto delle norme; mancanti dell’analisi economica delle opzioni alternative di regolamentazione e lacunose riguardo all’opzione prescelta; carenti nell’analisi di “fattibilità”, cioè incuranti della successiva fase di attuazione, anche in termini di stima delle risorse – finanziarie e umane – necessarie. Quanto alle VIR, affermare che non ve ne sono molti esempi sarebbe un eufemismo. Questa è la foto del “metodo” – anche per i fallimenti serve metodo – con cui i regolatori nazionali hanno nel tempo affossato ogni italica aspirazione di better regulation. Peraltro, svuotando di significato AIR e VIR, hanno costantemente disatteso anche il c.d. regulatory budget (che impone di non introdurre nuovi oneri amministrativi senza averne prima eliminati altri), reso le consultazioni pubbliche dei meri pro-forma, ossia atti di politica fittizia, e molto altro. Ma qui mi fermo.
“Fatto. Analisi. Impatto” è il metodo con cui, in questa newsletter, partendo dai fatti esaminati, vengono tratte conclusioni, fondandole su analisi di dati e impatti svolte trasparentemente. E trasparenza è la caratteristica ineludibile di ognuno degli strumenti di better regulationsopra citati, nonché la chiave di volta per comprendere il loro insufficiente utilizzo, di AIR e VIR soprattutto. La trasparenza delle decisioni di regolazione – cioè la trasparenza delle valutazioni degli impatti, anche attraverso la loro pubblicazione su siti istituzionali – metterebbe i governanti nella condizione di dover rendere conto del proprio operato, consentendo all’elettorato di giudicarli con dati di fatto. Detto in termini più banali, ne disvelerebbe i poco realistici annunci di riforme mirabolanti, così come il mancato ottenimento di effetti previsti con noncurante leggerezza. Dunque, gli strumenti che garantiscono la qualità della regolazione, nonché la trasparenza del processo di rule making, contribuirebbero alla responsabilizzazione democratica dei rule makers stessi, date le conseguenze reputazionali (e soprattutto elettorali) cui potrebbero dar luogo. E’ più chiaro ora il perché in Italia tali strumenti non vengono usati – anzi, sono spesso demonizzati da politici e supporter – con la conseguenza che le leggi sono fatte male e operano ancora peggio?
Dimenticavo: nel sottotitolo di questa newslettervi è anche la parola “Agenda”, cioè il “da farsi”, e ai fini di quanto detto sopra conta anche quella. La trasparente programmazione dell’attività normativa e, quindi, l’elenco delle iniziative di regolamentazione previste in un arco temporale preciso – con pubblicazione sui siti web istituzionali anche dei motivi per cui il programma non viene eventualmente rispettato – rappresenterebbe un impegno, la cui violazione nuocerebbe alla credibilità di chi l’ha assunto.
“Fatto. Analisi. Impatto. Agenda”. Così si chiude il cerchio.
Chi è l’autore. Vitalba Azzollini, giurista. Lavora presso un’Autorità di vigilanza. Scrive in tema di diritto su riviste on line (tra le altre, La Voce e Noise fron Amerika), blog (Phastidio e Istituto Bruno Leoni) e giornali. Autrice di paper per l’Istituto Bruno Leoni.
Una lettura estiva (forse sarebbe meglio dire uno studio estivo) di un libro affascinante: Exponential Organizations di Salim Ismail, edito da Marsilio nella collana Nodi.
Che cos’è un’organizzazione esponenziale? Essa è un’organizzazione il cui impatto (o output) risulta notevolmente superiore – almeno dieci volte – rispetto ai competitor, grazie all’utilizzo di nuove tecniche organizzative, che fanno leva sulle tecnologie in accelerazione.
Gestire organizzazioni esponenziali focalizzate sui clienti e non sui competitor esterni e sulle strutture interne tradizionali richiede una svolta epocale, paragonata a una nuova “era cambriana”. Richiede una nuova cultura e nuove e più dinamiche competenze.
Ho raccolto alcune frasi che mi hanno particolarmente colpito! Buona meditazione a tutti noi perché molti dei temi trattati riguardano anche la sanità!
L’unica costante del mondo d’oggi è il cambiamento, e il ritmo del cambiamento sta aumentando.
L’accelerazione (del cambiamento) è costituita dalle 6 D: digitalized, deceptive (ingannevole), disruptive (dirompente), dematerialized, demonetized, democratized.
L’utilizzo di strumenti lineari e di tendenze del passato per fare previsioni su di un futuro in accelerazione è deleterio (vedi i casi di Iridium e Kodak).
Gli esperti, in quasi tutti i campi, messi di fronte ad una crescita di tipo esponenziale, continuano sempre a pensare in un’ottica lineare, ignorando l’evidenza davanti ai loro occhi.
Il vecchio detto secondo cui un esperto è “qualcuno che ti dice perché qualcosa non può essere fatta” è oggi più vero che mai.
Nessuno degli indicatori tradizionali quali l’età, la reputazione e le vendite attuali possono garantire la sopravvivenza di un’azienda.
La legge di Moore afferma che il rapporto prezzo/prestazione della potenza di calcolo raddoppia ogni diciotto mesi.
“Le nostre organizzazioni sono fatte per resistere ai cambiamenti che arrivano dall’esterno” piuttosto che per accoglierli, anche quando sono utili (da John Hagel).
Le strutture organizzative aziendali esistono proprio per annientare i fattori dirompenti di cambiamento.
La maggior parte delle organizzazioni complesse si basa sulla cosiddetta “struttura a matrice” … Questa struttura è efficace nel garantire il controllo, ma è disastrosa in termini di individuazione delle responsabilità, di velocità e di propensione al rischio … Con il tempo, le funzioni orizzontali acquistano sempre più potere … Per le grandi organizzazioni con struttura a matrice attuare il cambiamento rapido e dirompente è qualcosa di estremamente difficile. Quelle che ci hanno provato, infatti, hanno sperimentato che il “sistema immunitario” dell’organizzazione tende a rispondere alla minaccia percepita attaccando.
Le organizzazioni esponenziali hanno la capacità di adattarsi a un mondo in cui l’informazione è pervasiva e onnipresente e di convertirla in vantaggio competitivo.
I tratti comuni delle organizzazioni esponenziali sono: il Massive Transformative Purpose (Mtp), cinque caratteristiche esterne denominate Scale e cinque interne denominate Ideas. Per essere un’organizzazione esponenziale, un’azienda deve avere il Mtp e almeno quattro caratteristiche.
Il Mtp non è la missione: il Mtp è aspirational. Il fuoco è su ciò che si aspira a raggiungere.
Scale: staff on demand; community and crowd; algoritmi, leveraged asset; engagement
Il concetto di autonomia non implica non rendere conto a nessuno delle proprie azioni. Secondo Steve Denning, “In un network esistono ancora le gerarchie, ma esse tendono ad essere basate sulle competenze, e fanno affidamento più sull’accountability tra colleghi che su quella dovuta all’autorità, cioè sul dover rendere conto a qualcuno perché sa qualcosa e non per il semplice fatto che occupa una determinata posizione indipendentemente dalle competenze. Il ruolo del manager si trasforma, non viene abolito”
Un’organizzazione esponenziale tende a essere una zero latency enterprise cioè un’azienda in cui si annulla l’intervallo tra ideazione, approvazione e realizzazione.
In passato il lavoro si concentrava principalmente sull’importanza del quoziente intellettivo (QI), oggi il quoziente emotivo (QE) e quello spirituale (QS) stanno diventando indicatori sempre più rilevanti.
Un secolo fa, la competizione si giocava principalmente sulla produzione, Quarant’anni fa, invece, il fattore decisivo divenne il marketing. Oggi, nell’era di internet, in cui produzione e marketing sono diventati merci e sono stati democratizzati, tutto ruota intorno a idee e ideali.
Il piano strategico quinquennale è in sé uno strumento obsoleto … Esso è un suicidio per un’organizzazione esponenziale … L’unica soluzione è stabilire un Massive transformational Purpose (Mtp), costruire la struttura aziendale, adottare un piano (al massimo) annuale e osservare la crescita, con aggiustamenti progressivi e in tempo reale a seconda delle necessità.
Nel mondo delle organizzazioni esponenziali, lo scopo (Mtp) è più importante della strategia e l’execution ha la precedenza sulla pianificazione.
Arianna Huffington ha detto: “Preferisco lavorare con una persona meno brillante ma che sa fare gioco di squadra ed è chiara e diretta, piuttosto che con qualcuno molto brillante ma dannoso per l’organizzazione”.
In un’organizzazione esponenziale, la cultura (con il Mtp e le tecnologie sociali) è il collante che garantisce la tenuta del team nonostante i salti quantici della crescita esponenziale. Secondo Chip Conley “la cultura è ciò che accade quando il capo non c’è”. E secondo Joi Ito “la cultura si mangia la strategia a colazione”.
Sta diventando sempre più facile acquisire potere, ma è sempre è più difficile mantenerlo.
Consiglio ai CEO delle grandi aziende di affiancare a chi occupa posizioni di leadership i venticinquenni più brillanti, per colmare il gap generazionale e tecnologico, per permettere a questi giovani di crescere più velocemente e per innescare un meccanismo di mentoring al contrario.
Se siete un manager di Amazon e un dipendente viene da voi con una grande idea, la vostra risposta di default deve essere sì: Se volete dire di no, dovete motivare questo rifiuto con una relazione di due pagine spiegando perché non ritenete l’idea valida.
Jeff Bezos (Amazon) ha detto: “ Se sei focalizzato sui competitor, devi aspettare che siano loro a fare la prima mossa, prima di agire. Concentrarsi sui clienti, invece, consente di essere dei pionieri”.
Il miglior modo per definire questa macrotransizione verso organizzazioni esponenziali è considerarla un passaggio dalla scarsità all’abbondanza … Secondo Dave Blakely “queste nuove organizzazioni sono esponenziali perché prendono qualcosa di scarso e lo fanno diventare abbondante”.
Una folgorante lettura estiva: La Storia come inventrice di storie. Un saggio breve di 38 pagine, scritto da Stefan Zweig nel 1939.
Due citazioni:
“Questo era ed è il primo e perenne compito della Storia: mostrare all’individuo il cammino e l’evolversi dell’intera umanità, unire interiormente il singolo a una sterminata serie di antenati, la cui opera è tenuto a completare degnamente”
“La verità è che nella Storia della nostra cultura a primeggiare sono quei popoli che hanno saputo rappresentare se stessi nel modo più innovativo e immaginifico, quelli che hanno saputo trasformare in saga, in epica, in mito la loro intera esistenza. Perciò, tanto per i contemporanei quanto per i posteri, la reputazione non dipende dalle dimensioni di un popolo, né dal numero dei morti prodotti dalle guerre, e nemmeno dalla grandezza sterminata del territorio che ha devastato. Di ogni popolo rimane solamente, quale prova storica universale, il contributo artistico che ha apportato al patrimonio dell’intera umanità. Ciò che possiamo concludere dunque è che non sono i popoli guerrieri a fare la storia, ma i popoli creativi; che non è la massa umana a essere decisiva, ma la humanitas, in questo senso di esplicazione creativa.”
Vale la pena di investire due ore nella lettura di questo saggio. Chissà che qualche nostro reggitore lo faccia!
L’attuale dibattito sui vaccini, come quello su ogni problema sociale complesso, rende urgente la risposta alla domanda: che cosa fare quando non si ha la competenza?
Adriano Sofri, su Il Foglio del 14 agosto 2004, ha tentato di dare una risposta a questa domanda.
“Ci sono due strade. Farsi una competenza, e su quella fondare una propria opinione non capricciosa. Oppure affidarsi prudentemente alla competenza altrui, e su quella fondare la propria cauta opinione”.
Stamane, su Radio24, Alessandro Milan e Oscar Giannino, solitamente prudenti e cauti, sono caduti nella trappola di un antivax veneto travestito da filosofo del diritto che ha dibattuto sulla libertà individuale, sparando comunque, senza essere minimamente contrastato, una serie di dati e informazioni volutamente sbagliate sulle coperture vaccinali, sugli interventi in corso di epidemie, ecc.
La mia reazione è stata che il linguaggio usato da Sofri nel 2004 è troppo aulico!
Meglio questo diagramma di flusso!
Sono certo che l’applicazione diffusa di questo diagramma è una pia illusione! Mi pare che viviamo in un periodo in cui chi urla di più impone le sue idiozie. Mao Tse Tung diceva: “Augura al tuo peggior nemico di vivere in tempi interessanti”! Il nostro è sicuramente un tempo interessante. O no?
Crisi della politica, esondazione della magistratura (a proposito: la Costituzione più bella del mondo non prevede un ordine giudiziario e un potere legislativo e esecutivo?); e fra politici e magistrati gruppi di giornalisti organizzati in cosche che appoggiano ora gli uni ora gli altri, raccontando comunque frottole.
Se fossimo una nazione seria metteremmo un po’ d’ordine in casa nostra, fondandolo su competenza e verità. Benedetto Croce scriveva: ” L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese”. Mi pare che l’imbecillità generale sia giunta a vette che pensavo inarrivabili: mi sbagliavo evidentemente!
Inoltre, con tutti questi onesti e puri che improvvisamente, e solo a parole, popolano il nostro paese mi è ritornata alla mente la celebre battuta di Pietro Nenni: “A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”.