Physician, public health specialist. Former CEO at University Hospital Trust, Udine; Provincial Healthcare Trust, Trento; Local Healthcare Trust No. 19 of the Veneto Region, Adria (Italy)
Inizia il caos concettuale e comunicativo della politica UE e Italiana che disorienterà ulteriormente i cittadini che, alla fine, rimarranno delusi e saranno inviperiti.
Il Commissario UE Breton ha affermato: “passaporto sanitario dal 15 giugno”. Il Ministro Speranza ha annunciato: “Il Green Pass europeo connesso alle vaccinazioni è la strada giusta per ricominciare a viaggiare in sicurezza”.
Quali sono i termini della questione?
Entro qualche settimana, il Parlamento Europeo dovrebbe discutere e approvare la “Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on a framework for the issuance, verification and acceptance of interoperable certificates on vaccination, testing and recovery to facilitate free movement during the COVID-19 pandemic (Digital Green Certificate)”.
La proposta è orientata al rilascio, verifica, e accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione con l’obiettivo di salvaguardare il principio di libera circolazione e residenza dei cittadini europei oggi limitata dalla pandemia sulla base di restrizioni nazionali.
Essa dovrebbe consentire di applicare la raccomandazione che il Consiglio Europeo (Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Unione) ha adottato il 13 ottobre 2020 (Council Recommendation(EU)2020/1475), e ha emendato il 1.2.2021 (Council Recommendation (EU) 2021/119), al fine di coordinare l’approccio alle restrizioni di libera circolazione dei cittadini durante la pandemia. Tale coordinamento dovrebbe riguardare: l’applicazione di criteri comuni e di soglie per le restrizioni di movimento; la mappatura del rischio di trasmissione di COVID-19 (pubblicato da ECDC) basata su codici colore condivisi; la definizione di misure da applicare alle persone che si muovono tra le diverse aree in funzione del livello di rischio di trasmissione in quelle aree. L’approccio dovrà comunque tenere conto del principio generale di proporzionalità e non discriminazione.
Proprio per rispettare questo principio la proposta tiene conto del fatto che i bambini ed adolescenti non possono oggi essere vaccinati e che alcuni adulti non possono essere sottoposti a vaccinazioni per ragioni biologiche. Essa, quindi, prevede non solo certificati di vaccinazione, ma anche di documenti attestanti la negatività di test diagnostici, nonché attestati di guarigione da una precedente infezione da SARS-CoV-2.
Il possesso del Digital Green Certificate vuole “facilitare il libero movimento”, ma non “dovrebbe essere una precondizione per l’esercizio della libera circolazione”. Esso non dovrebbe prevedere la creazione di un data base europeo, ma dovrebbe permettere la verifica decentrata dei certificati firmati digitalmente sulla base di sistemi interoperabili.
In considerazione dell’urgenza, la Commissione non condotto alcuna valutazione di impatto della proposta.
L’impressione generale è che l’approccio europeo sia, come quasi sempre accade, di tipo giuridico e legalistico ad un problema di enorme complessità sanitaria, economica e sociale. Sul piano tecnologico, poi, molti hanno già sollevato qualche osservazione critica anche sulla base dell’esperienza negativa con le APP di tracciamento dei contatti.
Se le parole hanno un significato, tuttavia, la proposta in discussione parla di CERTIFICATO e NON di PASSAPORTO! Per meglio intendersi: un certificato è un documento rilasciato da un soggetto competente che documenta l’attendibilità di un dato, nel nostro caso riferito ad una persona; un passaporto è un documento di identità valido per il passaggio da uno stato all’altro (anche se tale passaggio può essere comunque regolato, per esempio da un visto).
Poiché un certificato deve documentare l’attendibilità di un dato, il problema è stabilire che tipo di dato sia certificabile.
Mi sembra che sia facilmente certificabile il dato di avvenuta vaccinazione. Il Digital Green Certificate è, nei fatti, un’evoluzione tecnologica del classico certificato internazionale di vaccinazione per la febbre gialla.
Anche il risultato di un test diagnostico è, apparentemente, un dato certificabile, in quanto riferito ad una data precisa di esecuzione, ma dal punto di vista del controllo della pandemia, sarà importante sapere se esso derivi da un test molecolare (gold standard) o da un test antigenico rapido, che ha sensibilità minore e variabile a seconda delle tipologie di test. Quindi, un dato in sé certificabile potrebbe, comunque, determinare la circolazione di una quota variabile di soggetti falsamente negativi, soprattutto ai test antigenici, o di soggetti negativi nel dato momento che si possono reinfettare successivamente, che potrebbero accendere focolai in zone a bassa incidenza.
Le cose si complicano ancora quando si deve certificare la guarigione. La proposta europea parla di “guarigione (recovery) da una precedente infezione da SARS-CoV-2”. Anche in questo caso si tratta di un fatto in sé certificabile (documentando test negativi e/o dimissione ospedaliera e/o uscita dall’isolamento), ma che non considera la possibilità di reinfezione e il suo effetto nella circolazione del virus.
Insomma, la proposta non deriva da un esame multidisciplinare di un problema complesso, ma dall’urgenza di dare una risposta, formale e non sostanziale, all’esigenza economica e sociale di permettere l’allentamento delle restrizioni alla libertà di movimento tra gli Stati Membri.
Anche se il certificato è, nei fatti, una nuova tecnologia sanitaria che dovrebbe essere valutata secondo la metodologia del health technology assessment (per esempio, in termini di efficacia, sicurezza, efficienza, organizzazione, etica, ecc.), la Commissione Europea ha scelto di non svolgere alcuna analisi di impatto!
Anche a livello internazionale si è aperto un dibattito piuttosto critico. Alcuni temono che un’ampia applicazione di certificati simili possa prolungare l’epidemia e aumentare il pericolo, oltre a fare crescere le diseguaglianze e le discriminazioni. Emerge l’esigenza che le decisioni in questa delicata materia derivino da politiche (policies) basate sulle prove scientifiche disponibili, che non rafforzino le diseguaglianze e la diffidenza e che siano focalizzate sul raggiungimento di obiettivi di sanità pubblica.
Non mi sembra che l’impostazione della proposta europea vada in questa direzione!
In conclusione, il Digital Green Certificate sarà un CERTIFICATO e NON un PASSAPORTO. Esso certificherà, con tutti i problemi sopra ricordati a grandi linee, l’esecuzione della vaccinazione, la negatività a un test, la guarigione. Non sarà certamente un certificato di immunità.
A tal proposito, il lessico è fondamentale in quanto la consapevolezza dei cittadini e il mantenimento di comportamenti individuali ispirati all’estrema prudenza (mascherina, distanza fisica, lavaggio frequente delle mani e aerazione degli ambienti confinati) è e resterà comunque essenziale per il controllo della pandemia.
Speriamo che l’informazione veicolata da politici, giornalisti e social media sia ampia e corretta, non ricorra a scorciatoie ispirate da un uso scorretto dell’inglese e non crei confusione in una popolazione stanca e perciò disponibile a farsi illudere da affermazioni falsamente “tranquillizzanti e ottimistiche”.
In molti settori della nostra società si parla di sprechi, compresa naturalmente la sanità. Credo però che sia riduttivo interpretare gli sprechi solo in senso economico con una visione tutta finanziaria soprattutto se limitata ai singoli esercizi annuali di bilancio. Alcuni investimenti richiedono infatti tempo per dimostrare di essere produttivi; pensiamo agli interventi in ambito preventivo che richiedono un costo iniziale ma sicuramente portano col tempo risparmi nel costo delle cure, al di là dei vantaggi in termini di qualità della vita per i pazienti. Diagnosticare un tumore in fase iniziale rispetto a fasi più avanzate comporta trattamenti molto meno costosi e meno invalidanti e rischiosi per il malato. Anche non essere determinati nelle decisioni, chiari nelle scelte operative, precisi e coordinati nelle procedure costituiscono sprechi. Così come lo è ogni ritardo, riinvio, duplicazione di prestazioni, incertezza nelle scelte. Può diventare uno spreco in sanità anche il non ascolto dei pazienti perché le loro parole potrebbero guidarci con maggiore sicurezza e rapidità verso una corretta diagnosi e le successive terapie. Spesso i malati sono ottimi consiglieri, aiutano a non compiere errori, ci trasmettono con lucidità osservazioni importanti e questo porta a un migliore utilizzo delle risorse, a una reciproca fiducia che migliora l’aderenza alle terapie, a una minore prescrizione di esami spesso poco utili e a un risparmio sul consumo di farmaci. Molti passaggi burocratici, la necessità di richieste e la compilazione di documentii non sempre motivate sono altrettanti sprechi soprattutto quando sono incombenze attribuite a personale altamente qualificato che viene così distolto da quella che dovrebbe essere la sua attività prioritaria. Potrei continuare con molti esempi che vanno dai ritardi nella introduzione dell’informatica alla farraginosa e lenta conduzione degli appalti, dalla mancanza di reali controlli su indicatori di appropriatezza sostituiti da formali verifiche prive di efficacia nell’indurre veri cambiamenti vituosi, ma é sabato sera e credo dobbiate concedervi una serena serata.
Dalle dichiarazioni incendiarie contro le regole europee alla proposta di una Bce come bancomat del governo. Dall’oro della Banca d’Italia ai minibot. La prospettiva di un’Italexit sulla carta è fallimentare, ma la Lega sta facendo di tutto per renderla possibile. Inchiesta sul piano B
Davvero Matteo Salvini vuole portare l’Italia fuori dall’euro? Chi fosse ancora scettico sulle reali intenzioni della Lega dovrebbe sapere che questo quesito ha già avuto una risposta inequivocabile: “La questione dell’euro l’abbiamo tirata fuori io e Bagnai – ha dichiarato il responsabile economico del partito, Claudio Borghi, in un’intervista poco precedente alle elezioni politiche –, la questione dell’euro politicamente l’ha posta la Lega nord, quando alle elezioni europee si presentò addirittura con il simbolo ‘Basta euro’. Come si può pensare che sia una cosa che non vogliamo fare?”. Ecco, è questa la vera domanda, quella che il presidente della commissione Bilancio della Camera esorta a porsi: non se la Lega voglia uscire dall’euro, ma come si possa anche solo immaginare che non voglia farlo. “Se sembra un’anatra, nuota come un’anatra e fa qua-qua come un’anatra, allora molto probabilmente è un’anatra”, dice il duck test.
I dubbi sulle intenzioni della Lega sono iniziati a sorgere perché da un anno a questa parte, in seguito alla travagliata nascita del governo gialloverde, i dirigenti leghisti mentre si muovevano a passo d’anatra nelle istituzioni, ogni volta che starnazzavano, negavano di essere anatre. Cioè facevano professione di fede nella moneta unica. Le azioni e i fatti, però, sono andati in tutt’altra e univoca direzione: dalle dichiarazioni incendiarie contro le regole europee ai documenti sulla trasformazione della Bce in bancomat dei governi, passando per le proposte sull’oro della Banca d’Italia fino ad arrivare ai minibot, il governo sta conducendo il paese verso la porta d’uscita. Che questi siano tanti pezzi di una strategia politica che ha come obiettivo finale l’abbandono dell’euro lo ha spiegato lo stesso Borghi: “E’ evidente che io voglio uscire dall’euro e così lo vuole Matteo Salvini”. In quel lungo dialogo con Claudio Messora, ex responsabile della comunicazione del M5s in Europa, risalente a fine dicembre 2017, Borghi descrive per filo e per segno il percorso che la Lega avrebbe attuato una volta al governo.
“Non posso permettermi di dire: ‘Io esco dall’euro’ il giorno dopo che sono eletto – dice –. C’è tutta una parte di preparazione che va fatta, che può essere condivisa anche da partiti che non hanno nel programma di uscire dall’euro”. Borghi spiega così la sua ricetta per l’Italexit: “Se io voglio fare la carbonara e un altro non la vuole ma gli piace la pancetta o le uova, già il fatto di comprare le uova e la pancetta affumicata è un passo avanti. Se ragiono sapendo che devo fare dei passi precisi e questi passi in sé sono condivisi da qualcun altro che non condivide il punto finale, non importa perché tanto io in ogni caso dovrei andare a prendere la pancetta e le uova. Ho tempo di convincerlo e intanto passo questa fase di adattamento”. Pertanto non si tratta di proporre al paese una pietanza che non vuole ingurgitare, ma di convincerlo a procurarsi tutti gli ingredienti necessari a prepararla per poi servirla quando non ci sarà alternativa: o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. “Sto cercando, anche all’interno del mio partito, di scomporre la questione uscita dall’euro in ingredienti, i quali possono essere condivisi – prosegue Borghi –. La questione Banca d’Italia la trattiamo singola; la questione moneta in circolazione, stampa di moneta, la trattiamo singola; la questione gestione di debiti e crediti, gestione di Target 2, la trattiamo singola. Ogni cosa è un ingrediente che se riesco a sistemarli… poi la volontà politica per schiacciare il bottone finale la si costruisce”.
E’ doveroso interrogarsi sul senso di queste parole: esprimono posizioni individuali oppure descrivono una linea condivisa? Sulla permanenza nella moneta unica le dichiarazioni dei dirigenti della Lega sono sempre molto ambigue: per il momento non vogliamo uscire; l’uscita dall’euro non fa parte del contratto di governo; personalmente sono a favore dell’uscita, ma l’argomento non è all’ordine del giorno; non possiamo uscire perché non abbiamo la maggioranza, eccetera. Ma adesso che i rapporti di forza all’interno dell’alleanza di governo si sono ribaltati, con Luigi Di Maio ormai spalmato sulle posizioni di Salvini e disposto a tutto pur di non tornare al voto, più del contratto di governo conta la piattaforma programmatica di quella che è diventata la prima forza politica del paese. E da questo punto di vista non c’è alcun dubbio. La Lega è un partito no euro, che ha cioè come obiettivo prioritario e imprescindibile l’abbandono dell’unione monetaria europea. “L’euro è la principale causa del nostro declino economico, una moneta disegnata su misura per Germania e multinazionali e contraria alla necessità dell’Italia e della piccola impresa – c’è scritto nel programma di Matteo Salvini –. Abbiamo sempre cercato partner in Europa per avviare un percorso condiviso di uscita concordata. Continueremo a farlo e, nel frattempo, faremo ogni cosa per essere preparati e in sicurezza in modo da gestire da un punto di forza le nostre autonome richieste per un recupero di sovranità”.
All’ultimo congresso federale, quello del 2017 tenuto a Parma, sono state approvate due mozioni che vanno esattamente in questa direzione. La prima è la mozione numero 10, presentata da Claudio Borghi, che impegna Salvini e la Lega a sottrarre la “sovranità monetaria” all’Europa in quanto “è la premessa necessaria per la sostenibilità di gran parte del nostro programma economico e di sviluppo”. E in effetti, il braccio di ferro sul deficit con l’Europa e i mercati mostra quanto questa affermazione sia vera. L’altra mozione (“Verso una nuova alleanza di nazioni e popoli europei liberi e sovrani”) è quella presentata dal “moderato” Giancarlo Giorgetti, che in realtà è ancor più radicale di quella di Borghi. Il documento dell’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio parte infatti dal presupposto dell’Italexit, proponendo uno smantellamento concordato della zona euro per “tornare quantomeno allo status pre-Maastricht” oltre a una serie di modifiche ai pilastri dell’Unione europea (libertà di circolazione di persone, servizi e capitali, concorrenza, politica commerciale, supremazia del diritto comunitario) che rappresenterebbe la demolizione dell’Europa per come l’abbiamo conosciuta. Ma qualora non fossero accettate le modifiche ai Trattati proposti dalla Lega, la mozione Giorgetti propone l’uscita dall’Unione europea seguendo l’esempio della Brexit: “Come misura estrema non resterà che l’alternativa di un negoziato bilaterale tra Italia e Ue ricorrendo alla clausola di rescissione”, ricordando però che siccome “a differenza del Regno Unito, l’Italia è soggetta a molti più vincoli, derivanti dall’appartenenza alla zona euro” allora “spetterà al governo italiano adottare contestualmente tutti i provvedimenti necessari e urgenti per permettere all’Italia di affrontare il negoziato in una posizione che non sia di svantaggio o sudditanza, come accaduto per la Grecia”. Insomma la scelta non riguarda il “se” ma il “come”.
Il tema della piattaforma congressuale non è affatto irrilevante perché, dopo il boom delle elezioni europee, è la Lega a dettare la linea al governo. Quando Marine Le Pen, dopo la sconfitta alle presidenziali contro Emmanuel Macron, è stata costretta ad aggiustare il tiro, ha adottato diversi passi formali: oltre alla trasformazione del nome del partito da Front national a Rassemblement national al congresso di Lille, ha estromesso dal partito il suo vice Florian Philippot, che nel Fn era il teorico no euro e il principale artefice del posizionamento a favore della Frexit. Infine, nell’ultimo programma per le europee – pur rimanendo su posizione eurocritiche – Le Pen ha preso atto che “i francesi hanno dimostrato di rimanere attaccati alla moneta unica”. La Lega non ha fatto nulla di tutto ciò. Non ha dato, neppure dalle parti ritenute più moderate e razionali, alcun segnale concreto di un cambio di obiettivo politico. Anzi, nell’azione politica non ha fatto altro che cercare di procurarsi gli ingredienti per preparare l’Italexit.
Gli stessi Cinque stelle, d’altro canto, sull’euro hanno sempre mantenuto il piede in due scarpe, anche se negli ultimi mesi sembrano essersi auto-attribuiti la parte dei moderati all’interno della maggioranza di governo. La sensazione, però, è che si tratti di una scelta di mero opportunismo, come d’altronde confermano le tante proposte concrete che emergono da quel partito e che sono chiaramente incompatibili con la permanenza nell’euro. E, cosa più pericolosa, pur non essendo formalmente per l’uscita, sono invece – come da piano di Borghi – favorevoli a tutti gli ingredienti che servono a prepararla. Quindi, l’attuale esecutivo poggia su due forze che, pur oscillando tra esplicite professioni di anti europeismo, retromarce tattiche e implicite allusioni, sono l’una trasparentemente favorevole all’Italexit, l’altra disposta a cambiare posizione secondo le convenienze e comunque a fare la spesa insieme a Borghi.
La strategia della scomposizione in ingredienti è stata applicata in maniera silenziosa e continua, con alcuni ripiegamenti tattici dopo le prove di forza con le istituzioni europee e italiane (Quirinale, Banca d’Italia e Tesoro), sin dalla nascita del governo. Anzi, da prima, dal momento della formalizzazione dell’alleanza con il M5s, con l’inserimento nel contratto di governo – proprio da parte di Borghi – della richiesta di cancellazione di 250 miliardi di debiti da parte della Bce e di introduzione nei Trattati europei di “specifiche procedure tecniche di natura economica e giuridica che consentano agli stati membri di recedere dall’unione monetaria e recuperare la propria sovranità monetaria”. Questo primo strappo, che portò in pochi giorni lo spread sopra i 300 punti, fu ricucito con l’elisione delle proposte esplicite di un’Italexit che già iniziava a essere prezzata dai mercati. Il secondo strappo, anche quello ricucito, è stato l’indicazione di Paolo Savona – mister Piano B – come ministro dell’Economia. Nei dodici mesi successivi c’è stata una messa in discussione sistematica delle regole europee e dello stesso statuto della Bce che il governo italiano (e particolarmente la sua fazione più eurocritica) in maniera del tutto irricevibile e provocatoria – tanto da non ricevere alcuna risposta dagli altri stati europei – ha proposto di trasformare in una tipografia al servizio della monetizzazione del deficit italiano.
Il reddito di cittadinanza
Il primo ingrediente sta dove uno non se lo aspetterebbe. Il reddito di cittadinanza è uno dei pilastri programmatici del Movimento 5 stelle. Originariamente la Lega ne aveva avversato l’introduzione, ma poi ha dovuto ingoiare il rospo. Una spiegazione è che, in un governo di coalizione, ciascuna delle parti deve cedere qualcosa all’altra. Ma potrebbe esserci di più: il partito di Via Bellerio potrebbe aver visto nella card gialla uno degli strumenti potenzialmente utili a promuovere lo sganciamento dalla moneta unica. Infatti, c’è un precedente: quando la Grecia, nel 2015, si trovò a un passo dalla sovranità monetaria, il piano ideato dal ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, faceva perno proprio sulla creazione di un sistema di pagamenti parallelo a quello ufficiale.
L’idea, raccontata dallo stesso economista greco nel suo libro “Adulti nella stanza. La mia battaglia contro l’establishment dell’Europa”, muoveva dall’emissione di “carte di debito con un fondo di poche centinaia di euro al mese per coprire le necessità basilari, che sarebbero state distribuite a 300 mila famiglie che vivevano al di sotto della soglia di povertà”. Fin qui, pare trattarsi di una delle tante possibili policy per il contrasto della povertà. Invece, “queste carte sono solo l’inizio – prosegue Varoufakis –, presto potrebbero sostituire le carte di identità e fornire la base per un sistema di pagamenti che potrà funzionare in parallelo con le banche”. In tal modo, “il governo avrebbe potuto avere maggiore spazio di manovra fiscale, aiutare i poveri senza sottoporli all’umiliazione dell’uso di buoni, e soprattutto avrebbe fatto capire alla Troika che la Grecia si poteva avvalere di un sistema di pagamenti che avrebbe consentito il funzionamento dell’economia anche nel caso in cui loro avessero chiuso le nostre banche… se la Troika avesse deciso di buttar fuori la Grecia dall’Eurozona… quello stesso sistema di pagamenti sarebbe potuto venire ri-denominato come nuova valuta con un semplice clic al computer”. Parole quasi identiche a quelle spese da Borghi in un tweet del 1° giugno 2019: “Ma questi che diventano matti per i minibot perché ‘farebbero cambiare facilmente la moneta’ (?) non sono spesso gli stessi che vogliono vietare il pagamento in contanti? Ma lo sanno che per far cambiare la valuta di pagamento a una carta di credito basta un clic di un secondo?”.
E’ possibile che queste considerazioni non siano sfuggite alla delegazione leghista che ha contribuito alla stesura del contratto di governo. Del resto gli stessi pentastellati hanno flirtato a lungo con l’universo anti euro, mutuandone molte proposte e posizioni. Inoltre, gli anti euro italiani conoscono bene l’esperienza greca, di cui hanno fatto tesoro, e hanno spesso criticato la decisione di Alexis Tsipras di liberarsi del suo ministro abbandonando la Grexit. Lo stesso Borghi ha detto di aver mutato strategia dopo aver visto come si è conclusa la crisi greca.
Il responsabile economico della Lega, probabilmente, si ritiene un Varoufakis più astuto, e non v’è dubbio che le somiglianze tra i due siano molte: si potrebbe anche argomentare che Varoufakis è un Borghi che ha studiato. Se non ce l’ha fatta il leader di Syriza, che per la sua strategia si appoggiava oltre che su Varoufakis anche su economisti di rango internazionale quali Jeffrey Sachs e Larry Summers, difficilmente ce la farà Salvini con la sua tripla B (Borghi, Bagnai e Antonio Maria Rinaldi detto Bombolo). Sia come sia, la cedevolezza della Lega sul reddito di cittadinanza diventa più facilmente comprensibile se ci si chiede: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.
L’oro della Banca d’Italia
Il secondo ingrediente è al centro di una mozione parlamentare, passata con il voto delle forze della maggioranza e il supporto di Fratelli d’Italia, ma presentata in due versioni al Senato (a prima firma Bagnai-Bottici, i capigruppo di Lega e M5s in commissione Finanze) e alla Camera (con le firme D’Uva-Molinari, presidenti dei rispettivi gruppi). Entrambi i documenti, approvati rispettivamente ad aprile e inizio maggio, chiedono al governo di “definire l’assetto della proprietà delle riserve auree detenute dalla Banca d’Italia” e, a tal fine, di “favorire, per quanto di competenza, l’iter parlamentare della proposta di legge di interpretazione autentica già in discussione alla Camera per ribadire la proprietà statale delle riserve auree in deposito presso la Banca d’Italia”. Le istituzioni nazionali – ma anche la Bce, che è stata coinvolta con un’interrogazione del capogruppo no euro della Lega a Bruxelles Marco Zanni – si sono dovute muovere per chiarire che quanto chiesto dai parlamentari non può essere realizzato. Nella relazione annuale della Banca d’Italia, il governatore Ignazio Visco ha detto che “la detenzione e gestione delle riserve auree e valutarie della Banca d’Italia costituisce uno dei compiti fondamentali assegnati alle Banche centrali dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea” e che “nel nostro ordinamento tale assetto si realizza con il diritto di proprietà”. Lo stesso premier Conte, rispondendo a un’interrogazione di FdI, ha sostenuto che “la proprietà delle riserve auree nazionali è della Banca d’Italia… l’utilizzo della riserva aurea rientra tra le finalità istituzionali della banca a tutela del valore della moneta. Un intervento normativo volto a modificare gli assetti della proprietà aurea della Banca d’Italia… andrebbe, quindi, valutato sul piano della compatibilità con i principi basilari che regolamentano l’ordinamento del Sistema europeo delle Banche centrali”. Ciò nonostante, le mozioni chiedevano una rapida discussione di una proposta di legge di Borghi che, invece, stabilisce che le riserve auree detenute dalla Banca d’Italia sono di proprietà dello stato e non della Banca centrale.
Che c’entrano i lingotti con l’uscita dall’euro? Bisogna prenderla larga. Con l’adozione dell’euro, è stato introdotto il sistema Target 2, una piattaforma che consente di regolare i pagamenti in tempo reale da parte di banche commerciali nei diversi paesi dell’Unione. All’interno di tale sistema, le Banche centrali nazionali intermediano i trasferimenti di denaro da un paese all’altro, accendendo crediti (o debiti) corrispondenti verso la Banca centrale europea. L’Italia è lo stato membro col saldo negativo più elevato in valore assoluto: 481 miliardi di euro alla fine di aprile 2019, circa 40 miliardi in più rispetto al periodo precedente all’insediamento del governo gialloverde. La Banca d’Italia garantisce questa passività verso la Bce col proprio patrimonio, di cui le riserve auree rappresentano circa il 9 per cento (sono valutate in 88 miliardi di euro su attivi totali stimati in 968 miliardi). In caso di uscita dall’euro, Via Nazionale dovrebbe utilizzare i suoi attivi, incluso l’oro, per saldare la passività su Target 2. Togliendo le riserve auree dalla disponibilità di Palazzo Koch, e trasferendole al Tesoro, gli anti euro sperano di disinnescare le pretese di Francoforte, a cui contano di non ripagare il saldo negativo o, al massimo, di farlo nella nuova moneta svalutata.
Lo spostamento delle riserve auree, incluso il trasferimento fisico in Italia di quelle attualmente detenute all’estero, viene giustificato con altre motivazioni, come per esempio disinnescare le clausole di salvaguardia attraverso i proventi della vendita dei lingotti. A tal proposito, l’agenzia Reuters ha rivelato di aver visto una bozza di legge per consentire la vendita delle riserve, che sarebbe un logico step successivo all’eventuale approvazione del ddl Borghi sulla loro proprietà. Ovviamente si tratta di un pretesto: se le mozioni si traducessero in atti concreti (per esempio l’approvazione del ddl Borghi da parte di un ramo del Parlamento) i mercati sconterebbero un incremento del rischio di uscita, e dunque lo spread aumenterebbe. Ma se secondo le persone normali l’aumento dello spread dovrebbe segnalare il rischio di uscita dall’euro, secondo i no euro indica che il grande giorno si sta avvicinando. Anche in questo caso, ciò che conta veramente è l’intenzione: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.
I minibot
La sera di martedì 28 maggio, la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità una mozione sui debiti commerciali della pubblica amministrazione. Il dispositivo è all’acqua di rose, ma contiene un passaggio interessante: impegna il Governo a effettuare “la verifica della possibilità di realizzare iniziative per… l’ampliamento delle fattispecie ammesse alla compensazione tra crediti e debiti della pubblica amministrazione… anche attraverso strumenti quali titoli di stato di piccolo taglio” (successivamente, il Partito democratico e +Europa hanno fatto retromarcia ammettendo di aver votato la mozione per sbaglio, e hanno insistito sull’assenza di conseguenze formali). Le parole incriminate sono queste ultime dieci, su un totale di 1.670, e inizialmente erano presenti nella mozione di maggioranza D’Uva-Molinari (stessi firmatari della mozione sull’oro di Bankitalia) poi confluita nella mozione unitaria. Dieci parole vaghe, contorte e poste all’interno di un impegno formalmente molto debole, ma politicamente rilevante. Tanto da avviare una discussione, in Italia e all’estero, che non accenna a smorzarsi. Nei giorni scorsi, sono intervenuti a favore dei minibot, oltre al loro autoproclamato “creatore”, Claudio Borghi, i due vicepremier e azionisti di maggioranza del Governo, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e perfino Giancarlo Giorgetti, “quello bravo” della Lega, oltre al barricadero pentastellato Alessandro Di Battista. Hanno messo le mani avanti, per esorcizzare l’eventualità dei minibot, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e persino il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Le agenzie di rating Fitch e Moody’s hanno messo in guardia contro i rischi che potrebbero derivarne. Borghi e Bagnai hanno continuato ad alludere al possibile utilizzo dei minibot quale strumento per agevolare l’Italexit, negando che sia questo il principale obiettivo ma continuando a sottolineare che all’occorrenza avrebbero potuto essere uno degli ingredienti della ricetta.
In quella mozione votata all’unanimità si vede all’opera la strategia annunciata da Borghi: andare a comprare insieme ad altri partiti – più o meno svegli e consapevoli – un componente necessario alla minestra. E, in forza di quella mozione, rilanciare con un provvedimento avente forza di legge (esattamente come per l’oro di Bankitalia). Borghi, infatti, ha da un lato più volte preso l’impegno a inserire i minibot nella legge di bilancio e dall’altro ha “svelato” ai suoi seguaci parte della sua strategia. Per esempio, in un tweet di mercoledì 12 giugno ha scritto che i minibot, oltre ad accelerare i pagamenti della Pa (un pretesto ben poco credibile), hanno anche altre “esternalità”, e in particolare: “1) la forma cartacea lo rende spendibile principalmente nel commercio di prossimità e non nell’e-commerce; 2) si crea un metodo di pagamento aggiuntivo che può essere utile”.
Sempre Borghi, nel 2012, spiegava: “Sono una maniera subdola di introdurre fintamente un’altra moneta, perché se noi senza far capire che lo stiamo facendo mettiamo in circolazione un’altra moneta facciamo lo stesso sistema prudente del camionista che mette due ruote sull’assale”. Nel corso degli anni la descrizione non è cambiata: “I minibot sono un espediente per uscire in modo ordinato, una specie di ruota di scorta”, dice nel 2017. “Metteremo in circolazione una moneta, stampata e prodotta dallo stato. E così quando a qualcuno gli venisse l’idea di bloccare gli euro, avremmo già in circolazione una moneta che può diventare la nostra”. E ancora, quando presenta i fac-simile dei minibot con le effigi di Tardelli e Pertini: “Gli ingredienti preferisco andarmeli a comprare in silenzio, ma qualcosa devi far vedere. Non puoi pensare che la gente creda a scatola chiusa che hai un piano, almeno un ingrediente devi farglielo vedere per far capire che hai la carbonara sul fuoco”.
Per capire cosa c’è in ballo, bisogna partire proprio dalle parole di Draghi. Il presidente della Bce ha detto: “I minibot o sono moneta, e in tal caso sono illegali, o sono debito, e quindi lo stock del debito pubblico cresce. Non penso vi sia una terza possibilità”. In realtà, anche la seconda opzione è puramente ipotetica. La questione è persino banale: le pubbliche amministrazioni hanno dei debiti arretrati (lo stock è in rapida discesa dal 2013 e i tempi di pagamento sono ormai vicini, in media, al limite di legge dei 30 giorni, ma tant’è). Pagare i fornitori con titoli di stato di piccolo taglio, scontabili dalle tasse future, darebbe luogo a un ammanco di gettito: pertanto, lo stato dovrebbe individuare apposite coperture (maggiori tasse o minori spese) oppure collocare sul mercato titoli di stato di entità corrispondente. In tal caso, come ha sottolineato l’Eurotower, il buco andrebbe contabilizzato nell’ambito del debito pubblico. Ci sono però due “ma”.
Il primo è relativo alle modalità del pagamento: perché attribuire titoli di stato di piccolo taglio ai fornitori della Pa, anziché emettere titoli di stato ordinari per raccogliere gli euro con cui pagarli? L’effetto sul debito sarebbe il medesimo, ma nel secondo caso tutti sarebbero più felici: le istituzioni internazionali, che non sarebbero preoccupate dall’intento dell’operazione, e i creditori della Pa, che riceverebbero moneta liquida anziché titoli parzialmente illiquidi. Naturalmente, una risposta potrebbe essere che attraverso i minibot lo stato intende risparmiare sugli interessi (tassando implicitamente, in eguale misura, i creditori, che si vedrebbero negato ciò a cui invece oggi hanno diritto: un piccolo haircut o una mini-patrimoniale). Ma poiché l’intera manovra è rivolta a dare loro soddisfazione, e non ha una apparente motivazione di contenimento della spesa, ci sembra che la spiegazione non possa essere questa. Ciò conduce alla seconda obiezione. Se i minibot siano concretamente debito o moneta dipende solo in parte dal design: sarà altrettanto importante osservare in quale modo verranno utilizzati. Per esempio, il fatto di essere emessi in forma cartacea, con un formato analogo a quello delle banconote, e di essere trasferibili (cioè non nominativi), oltre a essere emessi dallo stato e utilizzabili per pagare le imposte, li rendono potenzialmente utilizzabili come moneta, anche se venissero formalmente contabilizzati quali titoli di debito. Inoltre i precedenti storici ricordano che le quasi-monete simili ai minibot – dagli assegnati durante la Rivoluzione francese ai Mefo del Terzo Reich, dai patacones in Argentina fino agli IOU in California – sono state introdotte quando uno stato non aveva accesso ai mercati internazionali, prima di un default o di un cambio di regime monetario. Di fronte a questa incertezza, e consapevoli delle possibili conseguenze, i mercati reagirebbero all’emissione di minibot come se si trattasse di un passo concreto verso l’uscita dall’euro, anche se non ve ne fosse alcuna intenzione. Che senso avrebbe, d’altronde, risolvere in modo complicato e ambiguo un problema che può essere affrontato in modo più semplice ed efficace? La risposta sta sempre nella domanda retorica di Borghi: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.
La tassa sui contanti
Alcuni giorni fa, Salvini ha proposto di estendere la “pace fiscale” ai contanti non dichiarati, massimamente conservati nelle cassette di sicurezza degli italiani. L’interpretazione di questa proposta non è chiara: qualcuno ci vede un tentativo di condono, finalizzato a strizzare ogni euro possibile per finanziare le politiche di spesa care al governo. Altri un intervento muscolare per spingere gli italiani a mettere in circolo i propri risparmi, con la speranza di stimolare i consumi. Non importa quale sia la versione corretta, anche perché le varie tesi non necessariamente si escludono a vicenda. Dietro questa operazione – che sia un condono o una vera e propria tassa sul contante – si nasconde uno degli “ingredienti” di Borghi. Proviamo a immaginare che lo stato effettivamente inizi a mettere in circolazione i minibot. Gli italiani molto probabilmente reagirebbero accantonando gli euro (valuta “forte” e molto liquida) e cercando di spendere i minibot (più facilmente soggetti al rischio di svalutazione e relativamente meno liquidi, in quanto non tutti li accetterebbero e comunque non a valore facciale, per esempio online e all’estero). E’ quella che gli economisti chiamano “legge di Gresham”: la moneta cattiva (il minibot) scaccia quella buona (l’euro), che le persone cercano di risparmiare perché non si sa mai. La tassa sul contante renderebbe meno conveniente questa condotta, specie in un contesto di incertezza in cui i cittadini potrebbero non avere la lucidità di intuire lo svolgimento del piano e il suo punto di caduta. Ancora una volta: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.
Conclusioni
Unendo gli ingredienti, si vede chiaramente prendere forma la ricetta dell’uscita dall’euro. C’è un ulteriore componente: il sale, cioè la continua ricerca di incidenti diplomatici con l’Unione, in un crescendo di stop and go finalizzati a creare, in ogni momento, un possibile alibi per lo strappo. Fin dalla nascita del “governo del cambiamento”, abbiamo assistito a un numero impressionante di provocazioni, ora affidate ai leader Salvini e Di Maio, ora ai loro gregari, seguite da rapide retromarce. Dalla minaccia di infrangere le regole alla proposta di riforme inverosimili dell’architettura dell’euro, dal tentativo di costruire alleanze coi partiti e i governi più lontani da Bruxelles alle frequenti dichiarazioni di sfida verso le istituzioni internazionali: tutto si tiene e tutto è funzionale a tenere alta la tensione. Una funzione particolarmente importante è assegnata all’inserimento di esponenti anti euro in posizioni nevralgiche, in modo da attribuire un peso particolare ai messaggi che essi lanciano. Proprio venerdì scorso il presidente della Consob Savona, in un discorso al mercato che ha parlato prevalentemente dei difetti dell’Europa e poco del ruolo e delle attività della Consob, ha definito “pregiudizi” le valutazioni “espresse da istituzioni sovranazionali, enti nazionali e centri privati”. Alla Rai, garantire la presidenza a Marcello Foa si è rivelato strumentale a introdurre il complottismo anti euro nella programmazione di alcune reti (in particolare Rai 2). Nelle aule parlamentari, il ruolo di Borghi e Bagnai come presidenti rispettivamente della commissione Bilancio della Camera e della commissione Finanze del Senato, ha già fatto vedere i suoi effetti, sia attraverso il loro potere di agenda setting, sia con la loro abilità nello sfruttare le distrazioni delle opposizioni (come sui minibot).
Il piano Borghi ha però un grande difetto: il suo impatto con la realtà. Come dimostra la forte sensibilità dello spread a qualunque dichiarazione, e come conferma la vicenda greca, per quanto Borghi e i suoi siano furbi, i mercati tendono a essere più furbi. O meglio, intelligenti e previdenti. Ogni volta che un ingrediente viene acquistato – o anche solo evocato – il sospetto che la fronda anti euro stia facendo la sua mossa si diffonde rapidamente, e questo si traduce in una maggiore difficoltà di accesso dell’Italia ai mercati internazionali. In fondo, l’emissione di valute parallele, la creazione di sistemi dei pagamenti alternativi, l’attacco all’indipendenza e alle riserve di Bankitalia, l’appello alla mobilitazione del risparmio nazionale, sono tipicamente segnali di avvicinamento all’ultima spiaggia. L’abbandono di una moneta forte per adottarne una svalutata è uno dei tanti modi attraverso cui può avvenire un default sovrano. Il fallimento dell’Italia è una prospettiva talmente disastrosa che difficilmente si concretizzerà e l’abbandono dell’euro è un processo così difficile e costoso che, molto probabilmente, non ci arriveremo mai (“l’euro è irreversibile”, nelle parole di Draghi). Tuttavia, non essere in grado di raggiungere un risultato non significa che sia impossibile provarci. E anche solo provandoci, l’Italia e gli italiani si troverebbero di fronte a conseguenze dolorose di cui hanno già avuto un antipasto col balzo ormai strutturale dello spread.
In altre parole, la strategia di Borghi & Co. è perfetta per un gioco di ruolo, ma estremamente naïf nel mondo reale, perché presuppone che investitori e risparmiatori ignorino le accelerate e si fidino delle retromarce. Prima di prendere atto che quella dell’Italexit è una prospettiva fallimentare, l’Italia potrebbe tuttavia subire conseguenze pesanti, in termini di costo di finanziamento del debito pubblico, accesso al credito da parte dei privati, scelte di investimento di famiglie e imprese, e quindi occupazione e crescita.
Oltre alla carbonara, per spiegare la sua strategia Claudio Borghi ha fatto un esempio molto più calzante che riguarda l’uso delle armi: “Puoi incontrare uno che dice ‘Io non sparerò mai a uno in casa mia, perché sono contrario alle armi’. Ma se gli metti lì la pistola e i proiettili, la volta che ti entra davvero il ladro, siamo sicuri che non sparerà? Anche una persona che inizialmente dichiarava che non lo avrebbe fatto, una volta che ha gli strumenti per reagire potrebbe farlo”. L’unico problema di questa metafora è che la pistola non è puntata contro i ladri, ma alla tempia di lavoratori, imprenditori e famiglie presi in ostaggio dalla banda dei no euro.
More than 70 events in over 25 countries take place between 13 and 17 May
in first ever European Public Health Week8 May 2019
For immediate release
Ahead of Europe Day, the public health community in Europe prepares to unite. Between 13 and 17 May, more than 70 events across at least 25 countries will celebrate healthy populations and raise awareness about public health. Everyone is invited to organise and join these local, national and regional activities of the first ever European Public Health Week (EUPHW).
Initiated by the European Public Health Association (EUPHA), co-organised by the European Commission and supported by the WHO Regional Office for Europe, the innovative initiative launches on Monday 13 May in a two-hour kick-off in Brussels. EUPHW event organisers will answer questions from the audience in the room and via live streaming, and participants will join a “walkinar” through a city park to promote ‘physical activity’, the theme of the first day.
Events will continue throughout the week. Promotion of healthy cities, safe roads and clean air and water is the theme of day two, dedicated to ‘Healthy environments’. Day three, ‘Care 4 care’ reminds European citizens to take care of what takes care of them by investing in a strong, skilled health workforce and promoting wellbeing in addition to treating diseases. The importance of a healthy diet while taking care of our planet is the theme for Thursday, ‘Sustainable and healthy diets’. On the final day of the week the focus will be on ‘Youth mental health’, promoting stable and supportive homes, schools and social environments for Europe’s future generation.
Activities include workshops, lectures, webinars, games, sports classes, online campaigns, roundtable discussions and exhibitions, in several languages at local, national, regional and European level.
EUPHA Executive Director Dineke Zeegers Paget, said: “We initiated the European Public Health WEEK to show the full picture of public health by collaborating with our European partners and members. Public health goes far beyond health, involving people from all disciplines, from environment to occupational therapy. And this week also goes far beyond the European Union – we are covering the 53 countries of the WHO European Region. All of us have the right to health and our health needs to be safeguarded in order to fully participate in society.”
EUPHA President Azzopardi Muscat, said: “We are twoweeks away from the European elections and this initiative highlights that healthy populations require a commitment from all of us to ensure truly that nobody is left behind. Whilst Europe leads the way in many health indicators, there remains much to do to achieve health-related targets in the sustainable development goals and there is no room for complacency in the face of growing inequalities and emerging challenges.”
Public health weeks have taken place in other countries in the past, such as the United States of America and Austria. Thomas Dorner from the Austrian Public Health Association said: “We have organised the Austrian Public Health Week for four years. It is very important to raise awareness of public health, particularly at a time when misinformation could be dangerous for people’s health. We are very glad to see that such initiatives are taking place from local to global level to celebrate healthy populations.”
For a full programme of the kick-off event in Brussels on 13 May at 10:00-12:00 CEST, including a live streaming link, visit www.facebook.com/events/2357285051151690
European countries with registered EUPHW events: Austria, Belgium, Bulgaria, Croatia, Czech Republic, Denmark, Finland, France, Georgia, Germany, Greece, Iceland, Lithuania, Malta, Netherlands, Norway, Poland, Portugal, Romania, Slovakia, Spain, Sweden, United Kingdom.
Events in non-European countries: Bangladesh, South Africa, Brazil.
What is EUPHA?
The European Public Health Association, or EUPHA in short, is an umbrella organisation for public health associations in Europe. Our network of national associations of public health represents around 20’000 public health professionals. Our mission is to facilitate and activate a strong voice of the public health network by enhancing visibility of the evidence and by strengthening the capacity of public health professionals. EUPHA contributes to the preservation and improvement of public health in the European region through capacity and knowledge building. We are committed to creating a more inclusive Europe, narrowing all health inequalities among Europeans, by facilitating, activating, and disseminating strong evidence-based voices from the public health community and by strengthening the capacity of public health professionals to achieve evidence-based change.
EUPHA’s definition of Public Health
“The science and art of preventing disease, prolonging life and promoting health and well-being through the organised efforts and informed choices or society, organisations, public and private, communities and individuals, and includes the broader area of public health, health services research, health service delivery and health systems design.”
Trattandosi di un nuovo partito devono raccogliere 150.000 firme autenticate, di cui almeno 30.000 per collegio elettorale e 3.000 per singola Regione. In Germania ne bastano 4.000, in tutto il Paese, e raccolte online!!! Quello italiano, incluso quello politico, è sempre un “mercato” chiuso che disincentiva la nascita di nuovi soggetti.
Alle elezioni europee potete votare come volete: in questa fase, tuttavia, vi chiedo la vostra firma perché i promotori di VOLT possano presentare la lista.
Come Editor-in-Chief del Giornale Italiano di Health Technology Assessment & Delivery, ho il piacere di diffondere il rendiconto dell’attività editoriale del 2018.
Il Giornale Italiano di Health Technology Assessment Delivery (Springer Healthcare Communications) mira a promuovere la produzione, valutazione e disseminazione di studi rilevanti per il sistema sanitario italiano. La rivista vuole contribuire all’affermazione di pratiche evidence-based, valorizzando e sintetizzando contributi provenienti da diverse discipline e in primo luogo l’epidemiologia, la statistica, l’organizzazione e gestione dei servizi sanitari, la ricerca clinica e l’economia.
La rivista si pone l’obiettivo di coniugare il rigore metodologico con la rilevanza rispetto alla situazione italiana, cogliendo e discutendo le specifiche dinamiche che stanno interessando il sistema sanitario per quanto riguarda il decentramento istituzionale, il dibattito sui LEA, le modalità per finanziarli e la sentita necessità di promuovere l’HTA come strumento di policy per garantire la sostenibilità del sistema.
Nel corso del 2018 sono stati pubblicati otto articoli (elencati di seguito)
Una lettura obbligata: Klasko MD MBA, Stephen K. We Can Fix Healthcare: The 12 Disruptors that will Create Transformation (Kindle Locations 471-474). Mary Ann Liebert Inc., publishers. Kindle Edition
Anche se molto orientato alla situazione americana, i 12 fattori dirompenti che stanno guidando la trasformazione dei sistemi sanitari possono offrire anche a noi italiani e europei degli spunti utili.
L’innovazione tecnologica è continua e, addirittura, più veloce della nostra capacità di conoscerne semplicemente l’esistenza.
Stiamo vivendo un momento storico nel quale rischiamo di essere travolti e di essere inconsapevoli di che cosa ci succede attorno nel mondo globale.
Ecco qui una traduzione di un’eccellente sintesi del libro scritta da Sir Muir Gray.
I 12 fattori dirompenti per trasformare i sistemi sanitari
Guarda all’assistenza sanitaria come a una squadra sportiva e sviluppa un sistema che sia al contempo semplice da usare e che produca valore.
Tieni fuori dal sistema di finanziamento gli incentivi centrati sul volume di attività e metti in campo incentivi finalizzati a determinare esiti per la salute ottimali.
Offri la giusta soluzione, al giusto paziente, nel giusto tempo e fornisci un’assistenza coordinata e tempestiva attorno alla condizione del paziente e attraverso i vari servizi.
Seleziona e forma i medici del futuro in modo opposto a quello usato per i medici del passato. Non stupirti più se i medici (scelti e preparati sulla base della media dei punteggi scientifici scolastici, sui test a scelta multipla e sulla memorizzazione di formule di chimica organica) non sono molto empatici, comunicativi e creativi.
Usa la tecnologia per garantire che ogni chirurgo possa oggettivamente dimostrare la competenza appropriata e l’abilità per eseguire la procedura richiesta.
Impara la lezione che ci ha dato la defunta BLOCKBUSTER e indirizza l’assistenza sanitaria dal “vieni nel mio ospedale quando sei malato” all’approccio di NETFLIX “porta l’assistenza sanitaria dov’è il paziente”. Non aprire nuovi posti letto quando è chiaro che ci sono innovazioni dirompenti che riducono il bisogno di costosi posti letto.
Manda sempre al paziente una fattura, credibile e comprensibile, nella quale risulti che cosa è stato fatto, quale sia stato il costo, e che cosa il paziente dovrebbe pagare al sistema, indipendentemente da chi materialmente paga il conto.
Non classificare come “ assistenza sanitaria alternativa” le modalità di trattamento delle malattie croniche utilizzate da pazienti e sistemi sanitari in altri paesi e che, in alcuni casi, hanno dimostrato risultati migliori di quelli ottenuti dalla “tradizionale” medicina americana su questo tipo di malattie.
Rompi il meccanismo di applicazione dell’innovazione e della ricerca clinica attraverso i cosiddetti centri di eccellenza. Smetti di costruire muri tra istituzioni non interoperabili che ostacolano l’accelerazione della ricerca e dell’innovazione.
Crea un patrimonio, integrato e interoperabile, basato su di un sistema di registrazioni di dati sanitari che permettano lo sviluppo di App centrate sui pazienti e i possibili fornitori di assistenza in modo che le informazioni sanitarie siano integrate almeno quanto sono quelle affidate ad AMAZON per gli acquisti e a NETFLIX per le preferenze sugli spettacoli.
Comprendi il pensiero sistemico e usa i modelli citati nei processi di riprogettazione dei sistemi sanitari che possano rendere I pazienti e le comunità più sane. Solo allora sarai in grado di “rompere” il “triangolo di ferro”: accesso, qualità, costi.
Non essere mai più soddisfatto di un qualsiasi sistema sanitario che determini diseguaglianze basate su razza, credo, orientamento sessuale, stato socioeconomico o pianeta di origine.
Come governare il mondo al tempo della devolution. Questo è il sottotitolo di un aureo libretto di Parag Khanna sulla democrazia e sulla governance delle società complesse quali quelle attuali e future.
“La democrazia non è un fine in sé: i veri obiettivi sono una governance efficace e il miglioramento del benessere della nazione”.
Sotto questa luce, la celebre battura di Churchill “L a democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre” va ripensata secondo l’Autore.
Khanna è a favore di una democrazia guidata collettivamente (l’esempio della Svizzera è continuamente richiamato) e di una governance tecnocratica (come a Singapore). La critica del sistema USA, così caro a Tocqueville, è feroce.
La classica democrazia rappresentativa è inefficace e inefficiente: finisce per cristallizzare il dibattito nelle “posizioni” (destra, sinistra, conservatori, liberali, ecc.). La politics intralcia la policy perché la policy ha a che fare con le decisioni non con le posizioni. Il discorso sulle posizioni politiche, rispetto alle decisioni, è così vero oggi che J.C. Junker dice: “Sappiamo tutti che cosa fare, ma non sappiamo come essere rieletti dopo che l’abbiamo fatto”.
Khanna, del sistema americano, apprezza l’efficacia ed efficienza della tecnocrazia che gestisce le grandi città americane che misurano i risultati amministrativi attraverso la definizione e il monitoraggio pubblico di una serie di KPI (key performance indicators) e cita la frase dell’ex Sindaco di New York, Bloomberg, “Quello che non sai misurare non sai governare”! Estendere questi metodi al sistema federale implicherebbe che “Una tecnocrazia al governo degli Stati Uniti non parlerebbe certo la lingua della centralizzazione, ma, al contrario, quella del decentramento dei poteri”.
Una lettura, come quella del precedente Connectography, obbligata!
Il dibattito sulla sostenibilità del sistema di welfare italiano (sanità, previdenza, assistenza) è guidato da ideologia, strumentalizzazioni e notizie verosimili, ma false. In questo dibattito, il Presidente dell’INPS Boeri spicca per non fare il suo lavoro, ma per assumere posizioni politiche che dovrebbero essere del Governo. La separazione economico-finanziaria del sistema pensionistico da quello di assistenza sociale dovrebbe essere una priorità per uno Stato che non fosse dedito, come il nostro, al gioco delle tre carte!
La previdenza dovrebbe essere sostenuta dai contributi: essa costituisce ancora, almeno formalmente, una retribuzione differita. L’assistenza sociale dovrebbe essere sostenuta dalla tassazione ordinaria alla quale partecipano i cittadini in modo progressivo al crescere del loro reddito.
La maggior parte delle prestazioni dell’INPS sono di tipo assistenziale e sono economicamente sostenute da trasferimenti insufficienti dello Stato e abbondantemente integrate dai contributi che lavoratori e aziende pagano per sostenere la previdenza. Le stime sulla sostenibilità futura del sistema pensionistico vengono “affogate” nel calderone che include l’assistenza. Il risultato è che si presenta come insostenibile il sistema previdenziale, mentre la componente critica è quella assistenziale!
Di qui nasce il battage pubblicitario sulle pensioni d’oro (in un’audizione alla Camera del Deputati, il Commissario alla Spending Review Gutgeld ha affermato che le pensioni d’oro sono quelle superiori ai 2000-2500 euro lordi mensili!!!).
Riporto di seguito il suo ultimo post del 30 novembre nel quale illustra una proposta di legge di iniziativa popolare per separare appunto previdenza da assistenza. Dopo le elezioni politiche le azioni si faranno battenti!
Eccolo!
“Parallelamente alla petizione, con cui si chiede che previdenza ed assistenza siano effettivamente separate, per le ovvie ragioni già esposte, si è pensato anche ad un progetto di legge di iniziativa popolare.
Potrebbe essere questo:
PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE RECANTE “ISTITUZIONE DELL’AGENZIA NAZIONALE PER IL WELFARE ASSISTENZIALE”
Articolo unico
In attuazione dell’art. 38, comma 4, della Costituzione è istituita l’agenzia nazionale per il welfare assistenziale (ANWA), dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e sottoposta alla vigilanza del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con il compito di assumere tutte le funzioni economiche assistenziali svolte dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).
In particolare l’ANWA ha il compito di:
a) erogare le prestazioni elencate dal comma 3 dell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, e successive modificazioni;
b) pagare tutte le pensioni totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale;
c) in generale, erogare tutte le prestazioni economiche assistenziali in favore di cittadini non abbienti e/o bisognosi, previste dalla legge;
d) esprimere pareri ed avanzare proposte al Governo in materia di prestazioni assistenziali economiche;
e) svolgere l’attività di controllo dei requisiti che danno titolo alle anzidette prestazioni.
Con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, da emanare nel termine di novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono disciplinati l’organizzazione ed il funzionamento dell’agenzia, in modo da realizzare il trasferimento ad essa del personale e delle strutture materiali che l’INPS destina alle funzioni elencate dall’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88.
Il direttore dell’agenzia è nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, tra esperti di riconosciuta competenza in materia di organizzazione e programmazione del welfare, anche estranei all’amministrazione.
Il direttore è assunto con contratto di diritto privato di durata quinquennale, non rinnovabile.
L’agenzia si avvale di personale trasferito dall’INPS. La dotazione organica è fissata con il decreto indicato al precedente comma 3.
La dotazione finanziaria dell’agenzia è determinata dai trasferimenti disposti dallo Stato e fissati annualmente con la legge di bilancio, nonché dai contributi dei datori di lavoro relativamente alle pensioni assistite ed ai trattamenti di integrazione salariale.
Il Governo è delegato ad emanare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo di riordino dei contenuti dell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, con conseguente abrogazione dell’art. 37 stesso, attenendosi al principio e criterio direttivo secondo cui la separazione di assistenza e previdenza sia completamente attuata ed all’INPS residui la sola funzione previdenziale, mentre all’ANWA sia attribuita interamente la funzione assistenziale.
Questa la relazione accompagnatoria:
RELAZIONE ALLA PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE RECANTE “ISTITUZIONE DELL’AGENZIA NAZIONALE PER IL WELFARE ASSISTENZIALE”
Con l’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, è stato introdotto il principio di separazione, nel bilancio dell’INPS, del sistema della previdenza da quello dell’assistenza, mediante l’istituzione di una gestione dei trattamenti assistenziali (GIAS) finanziato dalla fiscalità generale.
La GIAS ricomprende prestazioni esclusivamente assistenziali (come le pensioni di invalidità) ma anche prestazioni a carattere misto, cioè previdenziali coperte solo parzialmente dai contributi versati, come ad esempio le pensioni integrate al minimo.
L’esigenza della separazione nasceva e nasce dal fatto che entrambe le funzioni sono concentrate in un unico ente, l’INPS, il più grande istituto previdenziale europeo, che tuttavia ha nel suo bilancio anche una spesa assistenziale di oltre trenta miliardi di euro.
Il principio di separazione è certamente indispensabile per garantire trasparenza e chiarezza del bilancio ed evitare la confusione tra i due diversi sistemi.
In realtà, la commistione tra assistenza e previdenza non è stata affatto eliminata, nemmeno dopo l’introduzione dell’art. 37 della legge n. 88 del 1989.
Invero, nel bilancio dell’INPS continuano a circolare cifre poco chiare e, non di rado, le spese assistenziali sono contenute all’interno di voci previdenziali, e viceversa.
Ciò significa che i contributi che vengono versati per garantire in futuro i trattamenti pensionistici finiscono in quest’unico bilancio in cui L’INPS si destreggia per poter erogare anche le prestazioni assistenziali.
Da ciò deriva, inevitabilmente, l’assorbimento di risorse contributive nelle erogazioni assistenziali e sociali.
L’INPS, tuttavia, ha il precipuo compito di garantire che le prestazioni previdenziali siano corrisposte a coloro che hanno versato i relativi contributi confidando nella loro funzione assicurativa e che, quindi, tali contributi siano esclusivamente a ciò destinati; risulta invece del tutto improprio che tali contribuzioni finiscano per essere destinate anche a finanziare prestazioni assistenziali.
Le spese di carattere assistenziale (anche quando si tratti degli incrementi pensionistici non coperti dai contributi, come le integrazioni al minimo) vanno invece poste esclusivamente a carico della fiscalità generale, senza che si attinga ai contributi versati dagli aventi titolo alle prestazioni previdenziali.
Se così non fosse, il principio di uguaglianza fissato dall’art. 3 della Costituzione verrebbe violato, in quanto le prestazioni assistenziali graverebbero ingiustamente su una platea limitata di soggetti, e cioè di coloro che hanno versato e versano contributi per garantirsi il trattamento
previdenziale della vecchiaia.
Inoltre, un tale risultato si rivela altresì in contrasto con altri principi di rango costituzionale, come quello che il trattamento di quiescenza è configurabile quale retribuzione differita, secondo il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) nonché con il principio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.) (cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010).
I trattamenti pensionistici rappresentano la “restituzione” assicurativa, sotto forma di assegno mensile, di contributi versati e via via incamerati dall’ente erogatore durante la vita lavorativa. A questa “restituzione” assicurativa il pensionato acquisisce un vero e proprio diritto che sarebbe violato se quei contributi venissero (come vengono) dirottati per finanziare anche le erogazioni assistenziali.
Il fenomeno è di entità niente affatto irrilevante.
Si pensi che circa 4 milioni di soggetti ricevono pensioni assistenziali (assegni sociali, di invalidità, etc.) e quasi 5 milioni di soggetti godono delle integrazioni al minimo e delle maggiorazioni sociali, per un totale di circa 9 milioni di beneficiari che rappresentano circa la metà di tutti i pensionati.
Nell’opacità del bilancio INPS onnicomprensivo queste pensioni finiscono per essere parzialmente “pagate” anche da coloro che hanno versato e versano i contributi assicurativi per la propria pensione e ciò, rendendo insostenibile il sistema, ne minaccia paradossalmente la corresponsione.
Questo purtroppo è ciò che avviene quando vi è commistione tra le due funzioni e tra le relative poste di bilancio.
Occorre dunque che le prestazioni di carattere assistenziale (come le integrazioni al minimo, le maggiorazioni sociali e le pensioni di invalidità) non vengano mai confuse nella spesa pensionistica.
Vi è un’ulteriore decisiva ragione che dovrebbe spingere a realizzare la separazione.
Invero, la spesa effettiva per pensioni, al netto delle tasse e delle ingenti somme (oltre 30 miliardi di euro) della gestione assistenziale GIAS, è interamente coperta dalle entrate contributive, a dimostrazione che con le riforme previdenziali via via attuate, fino alla riforma Fornero, il sistema previdenziale italiano non è affatto in passivo ma è perfettamente sostenibile.
Il sistema pensionistico nel nostro Paese poteva definirsi “non sostenibile”, a causa dell’invecchiamento della popolazione e della la bassa età effettiva di uscita dal mercato del lavoro, prima delle riforme Dini e Fornero, ma non certo dopo tali riforme.
Ed infatti, la spesa pensionistica “pura” – detratta anche la tassazione che grava sulle pensioni – con la separazione dalla spesa assistenziale scenderebbe al 10% del PIL, in linea con quella degli altri Paesi comunitari.
Invece, nel confronto con gli altri Paesi europei l’Italia si posiziona, a causa dell’anzidetta commistione, agli ultimi posti delle classifiche OCSE ed Eurostat in tema di spesa pensionistica, con tutte le relative conseguenze negative in termini, non solo di immagine, ma anche di “attenzione” comunitaria alle dinamiche fuori controllo della spesa pubblica ed al bilancio dello Stato, già gravemente zavorrato dal debito pubblico.
Appare quindi opportuno che si proceda ad una riforma radicale della gestione assistenziale svolta dall’INPS.
Per ottenere ciò, è anzitutto necessario che tale funzione sia coerentemente sottratta all’INPS, il quale deve esclusivamente svolgere la funzione previdenziale assicurativa che per legge gli appartiene, e che le erogazioni assistenziali siano invece affidate ad un organismo diverso, convenientemente attrezzato ad occuparsene in maniera equa ed efficace.
La presente proposta di legge popolare è dunque intesa all’istituzione di un’agenzia, posta sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, alla quale saranno affidate le prestazioni attualmente elencate nell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88 e ss. mm.
Conseguentemente, l’agenzia avrà altresì funzioni consultive e propositive nonché di controllo circa l’effettiva sussistenza dei requisiti che danno titolo, per i beneficiari, all’erogazione delle prestazioni economiche assistenziali.
Nello stesso tempo, la presente proposta di legge popolare prevede di conferire la delega legislativa al Governo affinché provveda al riordino delle varie voci della GIAS, in modo che i dati della spesa previdenziale e di quella assistenziale divengano certi e trasparenti, passaggio questo prioritario per qualsiasi intervento legislativo di riforma del sistema previdenziale che si voglia consapevolmente intraprendere.”
Interessante articolo di Travis Bradberry su Inc. Author, Emotional Intelligence 2.0 @talentsmarteq
What makes someone a leader anyway?
Such a simple question, and yet it continues to vex some of the best thinkers in business. I’ve written books on leadership, and yet it’s a rare thing to actually pause to define leadership.
Let’s start with what leadership is not …
Leadership has nothing to do with seniority or one’s position in the hierarchy of a company. Too many consider a company’s leadership to refer to the senior most executives in the organization. They are just that, senior executives. Leadership doesn’t automatically happen when you reach a certain pay grade. Hopefully you find it there, but there are no guarantees.
Leadership has nothing to do with titles. Similar to the previous point, having a C-level title doesn’t automatically make you a leader. You don’t need a title to lead. You can be a leader in your workplace, your neighborhood, or your family, all without having a title.
Leadership has nothing to do with personal attributes. Say the word leader and most people think of a domineering, take-charge, charismatic individual. People often think of icons from history such as George S. Patton or Abraham Lincoln. But leadership isn’t an adjective. We don’t need to be extroverted or charismatic to practice leadership. And those with charisma don’t automatically lead.
Leadership isn’t management. This is the big one. Leadership and management are not synonymous. You have 15 people in your downline and P&L responsibility? Good for you; hopefully, you are a good manager. Good management is needed. Managers need to plan, measure, monitor, coordinate, solve, hire, fire, and so many other things. Managers spend most of their time managing things. Leaders lead people.
So, again, what makes a leader?
Let’s see how some of the most respected business thinkers of our time define leadership, and let’s consider what’s wrong with their definitions.
Peter Drucker: “The only definition of a leader is someone who has followers.”
Really? This instance of tautology is so simplistic as to be dangerous. A new Army captain is put in the command of 200 soldiers. He never leaves his room or utters a word to the men and women in his unit. Perhaps routine orders are given through a subordinate. By default, his troops have to follow orders. Is the captain really a leader? Commander, yes; leader, no. Drucker is of course a brilliant thinker, but his definition is too simple.
Warren Bennis: “Leadership is the capacity to translate vision into reality.”
Every spring you have a vision for a garden, and with lots of work carrots and tomatoes become a reality. Are you a leader? No, you’re a gardener. Bennis’s definition seems to have forgotten “others.”
Bill Gates: “As we look ahead into the next century, leaders will be those who empower others.”
This definition includes “others,” and empowerment is a good thing. But to what end? We’ve seen many empowered “others” in life, from rioting hooligans to Google workers who were so misaligned with the rest of the company they found themselves unemployed. Gates’s definition lacks goals and vision.
John Maxwell: “Leadership is influence–nothing more, nothing less.”
I like minimalism, but this reduction is too much. A robber with a gun has influence over his victim. A manager has the power to fire team members, which provides a lot of influence. But does this influence make a robber or a manager a leader? Maxwell’s definition omits the source of influence.
So what is leadership?
Definition: Leadership is a process of social influence that maximizes the efforts of others toward the achievement of a greater good.
Notice the key elements of this definition:
Leadership stems from social influence, not authority or power.
Leadership requires others, and that implies they don’t need to be “direct reports.”
No mention of personality traits, attributes, or even a title; there are many styles, many paths to effective leadership.
It includes a greater good, not influence with no intended outcome.
Leadership is a mindset in action. So don’t wait for the title. Leadership isn’t something that anyone can give you–you have to earn it and claim it for yourself.
So what do you think of my definition of leadership? Please share your thoughts in the comments section below, as I learn just as much from you as you do from me.
Special thanks to Kevin Kruse for help with this post.
“Io non perdo mai. Certe volte vinco, altre volte imparo.” Questa frase di Nelson Mandela è riportata nella quarta di copertina di un aureo libretto di Charles Pépin: Il potere magico del fallimento: perché la sconfitta ci rende liberi edito da Garzanti.
La vera crescita è sempre costruita attraverso errori, sconfitte e delusioni.
Il messaggio dell’autore è profondo: per diventare quelli che siamo ed esprimere il nostro potenziale dobbiamo accettare l’esperienza del rischio e non limitarci a scegliere tra alternative note e rassicuranti.
Molto interessante è l’analisi che egli fa sulla cultura francese (molto simile a quella italiana secondo me) rispetto a quella anglosassone, in particolare, americana. Per francesi (e italiani) il fallimento è una colpa di cui vergognarsi. Per gli americani è un’esperienza e un’opportunità.
This is the text of a lecture delivered at the Lowy Institute Media Award dinner in Sydney, Australia, on Saturday, Sept. 23. The award recognizes excellence in Australian foreign affairs journalism.
Let me begin with thanks to the Lowy Institute for bringing me all the way to Sydney and doing me the honor of hosting me here this evening.
I’m aware of the controversy that has gone with my selection as your speaker. I respect the wishes of the Colvin family and join in honoring Mark Colvin’s memory as a courageous foreign correspondent and an extraordinary writer and broadcaster. And I’d particularly like to thank Michael Fullilove for not rescinding the invitation.
This has become the depressing trend on American university campuses, where the roster of disinvited speakers and forced cancellations includes former Secretaries of State Henry Kissinger and Condoleezza Rice, former Harvard University President Larry Summers, actor Alec Baldwin, human-rights activist Ayaan Hirsi Ali, DNA co-discoverer James Watson, Indian Prime Minister Narendra Modi, filmmaker Michael Moore, conservative Pulitzer Prize-winning columnist George Will and liberal Pulitzer Prize-winning columnist Anna Quindlen, to name just a few.
So illustrious is the list that, on second thought, I’m beginning to regret that you didn’t disinvite me after all.
The title of my talk tonight is “The Dying Art of Disagreement.” This is a subject that is dear to me — literally dear — since disagreement is the way in which I have always earned a living. Disagreement is dear to me, too, because it is the most vital ingredient of any decent society.
To say the words, “I agree” — whether it’s agreeing to join an organization, or submit to a political authority, or subscribe to a religious faith — may be the basis of every community.
But to say, I disagree; I refuse; you’re wrong; etiam si omnes — ego non — these are the words that define our individuality, give us our freedom, enjoin our tolerance, enlarge our perspectives, seize our attention, energize our progress, make our democracies real, and give hope and courage to oppressed people everywhere. Galileo and Darwin; Mandela, Havel, and Liu Xiaobo; Rosa Parks and Natan Sharansky — such are the ranks of those who disagree.
And the problem, as I see it, is that we’re failing at the task.
This is a puzzle. At least as far as far as the United States is concerned, Americans have rarely disagreed more in recent decades.
We disagree about racial issues, bathroom policies, health care laws, and, of course, the 45th president. We express our disagreements in radio and cable TV rants in ways that are increasingly virulent; street and campus protests that are increasingly violent; and personal conversations that are increasingly embittering.
This is yet another age in which we judge one another morally depending on where we stand politically.
Nor is this just an impression of the moment. Extensive survey data show that Republicans are much more right-leaning than they were twenty years ago, Democrats much more left-leaning, and both sides much more likely to see the other as a mortal threat to the nation’s welfare.
The polarization is geographic, as more people live in states and communities where their neighbors are much likelier to share their politics.
The polarization is personal: Fully 50 percent of Republicans would not want their child to marry a Democrat, and nearly a third of Democrats return the sentiment. Interparty marriage has taken the place of interracial marriage as a family taboo.
Finally the polarization is electronic and digital, as Americans increasingly inhabit the filter bubbles of news and social media that correspond to their ideological affinities. We no longer just have our own opinions. We also have our separate “facts,” often the result of what different media outlets consider newsworthy. In the last election, fully 40 percent of Trump voters named Fox News as their chief source of news.
Thanks a bunch for that one, Australia.
It’s usually the case that the more we do something, the better we are at it. Instead, we’re like Casanovas in reverse: the more we do it, the worse we’re at it. Our disagreements may frequently hoarsen our voices, but they rarely sharpen our thinking, much less change our minds.
It behooves us to wonder why.
* * *
Thirty years ago, in 1987, a philosophy professor at the University of Chicago named Allan Bloom — at the time best known for his graceful translations of Plato’s “Republic” and Rousseau’s “Emile” — published a learned polemic about the state of higher education in the United States. It was called “The Closing of the American Mind.”
The book appeared when I was in high school, and I struggled to make my way through a text thick with references to Plato, Weber, Heidegger and Strauss. But I got the gist — and the gist was that I’d better enroll in the University of Chicago and read the great books. That is what I did.
What was it that one learned through a great books curriculum? Certainly not “conservatism” in any contemporary American sense of the term. We were not taught to become American patriots, or religious pietists, or to worship what Rudyard Kipling called “the Gods of the Market Place.” We were not instructed in the evils of Marxism, or the glories of capitalism, or even the superiority of Western civilization.
As I think about it, I’m not sure we were taught anything at all. What we did was read books that raised serious questions about the human condition, and which invited us to attempt to ask serious questions of our own. Education, in this sense, wasn’t a “teaching” with any fixed lesson. It was an exercise in interrogation.
To listen and understand; to question and disagree; to treat no proposition as sacred and no objection as impious; to be willing to entertain unpopular ideas and cultivate the habits of an open mind — this is what I was encouraged to do by my teachers at the University of Chicago.
It’s what used to be called a liberal education.
The University of Chicago showed us something else: that every great idea is really just a spectacular disagreement with some other great idea.
Socrates quarrels with Homer. Aristotle quarrels with Plato. Locke quarrels with Hobbes and Rousseau quarrels with them both. Nietzsche quarrels with everyone. Wittgenstein quarrels with himself.
These quarrels are never personal. Nor are they particularly political, at least in the ordinary sense of politics. Sometimes they take place over the distance of decades, even centuries.
Most importantly, they are never based on a misunderstanding. On the contrary, the disagreements arise from perfect comprehension; from having chewed over the ideas of your intellectual opponent so thoroughly that you can properly spit them out.
In other words, to disagree well you must first understand well. You have to read deeply, listen carefully, watch closely. You need to grant your adversary moral respect; give him the intellectual benefit of doubt; have sympathy for his motives and participate empathically with his line of reasoning. And you need to allow for the possibility that you might yet be persuaded of what he has to say.
“The Closing of the American Mind” took its place in the tradition of these quarrels. Since the 1960s it had been the vogue in American universities to treat the so-called “Dead White European Males” of the Western canon as agents of social and political oppression. Allan Bloom insisted that, to the contrary, they were the best possible instruments of spiritual liberation.
He also insisted that to sustain liberal democracy you needed liberally educated people. This, at least, should not have been controversial. For free societies to function, the idea of open-mindedness can’t simply be a catchphrase or a dogma. It needs to be a personal habit, most of all when it comes to preserving an open mind toward those with whom we disagree.
* * *
That habit was no longer being exercised much 30 years ago. And if you’ve followed the news from American campuses in recent years, things have become a lot worse.
According to a new survey from the Brookings Institution, a plurality of college students today — fully 44 percent — do not believe the First Amendment to the U.S. Constitution protects so-called “hate speech,” when of course it absolutely does. More shockingly, a narrow majority of students — 51 percent — think it is “acceptable” for a student group to shout down a speaker with whom they disagree. An astonishing 20 percent also agree that it’s acceptable to use violence to prevent a speaker from speaking.
These attitudes are being made plain nearly every week on one college campus or another.
There are speakers being shouted down by organized claques of hecklers — such was the experience of Israeli ambassador Michael Oren at the University of California, Irvine. Or speakers who require hundreds of thousands of dollars of security measures in order to appear on campus — such was the experience of conservative pundit Ben Shapiro earlier this month at Berkeley. Or speakers who are physically barred from reaching the auditorium — that’s what happened to Heather MacDonald at Claremont McKenna College in April. Or teachers who are humiliated by their students and hounded from their positions for allegedly hurting students’ feelings — that’s what happened to Erika and Nicholas Christakis of Yale.
And there is violence. Listen to a description from Middlebury College professor Allison Stanger of what happened when she invited the libertarian scholar Charles Murray to her school to give a talk in March:
The protesters succeeded in shutting down the lecture. We were forced to move to another site and broadcast our discussion via live stream, while activists who had figured out where we were banged on the windows and set off fire alarms. Afterward, as Dr. Murray and I left the building . . . a mob charged us.
Most of the hatred was focused on Dr. Murray, but when I took his right arm to shield him and to make sure we stayed together, the crowd turned on me. Someone pulled my hair, while others were shoving me. I feared for my life. Once we got into the car, protesters climbed on it, hitting the windows and rocking the vehicle whenever we stopped to avoid harming them. I am still wearing a neck brace, and spent a week in a dark room to recover from a concussion caused by the whiplash.
Middlebury is one of the most prestigious liberal-arts colleges in the United States, with an acceptance rate of just 16 percent and tuition fees of nearly $50,000 a year. How does an elite institution become a factory for junior totalitarians, so full of their own certitudes that they could indulge their taste for bullying and violence?
There’s no one answer. What’s clear is that the mis-education begins early. I was raised on the old-fashioned view that sticks and stones could break my bones but words would never hurt me. But today there’s a belief that since words can cause stress, and stress can have physiological effects, stressful words are tantamount to a form of violence. This is the age of protected feelings purchased at the cost of permanent infantilization.
The mis-education continues in grade school. As the Brookings findings indicate, younger Americans seem to have no grasp of what our First Amendment says, much less of the kind of speech it protects. This is a testimony to the collapse of civics education in the United States, creating the conditions that make young people uniquely susceptible to demagogy of the left- or right-wing varieties.
Then we get to college, where the dominant mode of politics is identity politics, and in which the primary test of an argument isn’t the quality of the thinking but the cultural, racial, or sexual standing of the person making it. As a woman of color I thinkX. As a gay man I think Y. As a person of privilege I apologize for Z. This is the baroque way Americans often speak these days. It is a way of replacing individual thought — with all the effort that actual thinking requires — with social identification — with all the attitude that attitudinizing requires.
In recent years, identity politics have become the moated castles from which we safeguard our feelings from hurt and our opinions from challenge. It is our “safe space.” But it is a safe space of a uniquely pernicious kind — a safe space fromthought, rather than a safe space for thought, to borrow a line I recently heard from Salman Rushdie.
Another consequence of identity politics is that it has made the distance between making an argument and causing offense terrifyingly short. Any argument that can be cast as insensitive or offensive to a given group of people isn’t treated as being merely wrong. Instead it is seen as immoral, and therefore unworthy of discussion or rebuttal.
The result is that the disagreements we need to have — and to have vigorously — are banished from the public square before they’re settled. People who might otherwise join a conversation to see where it might lead them choose instead to shrink from it, lest they say the “wrong” thing and be accused of some kind of political -ism or -phobia. For fear of causing offense, they forego the opportunity to be persuaded.
Take the arguments over same-sex marriage, which you are now debating in Australia. My own views in favor of same-sex marriage are well known, and I hope the Yes’s wins by a convincing margin.
But if I had to guess, I suspect the No’s will exceed whatever they are currently polling. That’s because the case for same-sex marriage is too often advanced not by reason, but merely by branding every opponent of it as a “bigot” — just because they are sticking to an opinion that was shared across the entire political spectrum only a few years ago. Few people like outing themselves as someone’s idea of a bigot, so they keep their opinions to themselves even when speaking to pollsters. That’s just what happened last year in the Brexit vote and the U.S. presidential election, and look where we are now.
If you want to make a winning argument for same-sex marriage, particularly against conservative opponents, make it on a conservative foundation: As a matter of individual freedom, and as an avenue toward moral responsibility and social respectability. The No’s will have a hard time arguing with that. But if you call them morons and Neanderthals, all you’ll get in return is their middle finger or their clenched fist.
One final point about identity politics: It’s a game at which two can play. In the United States, the so-called “alt-right” justifies its white-identity politics in terms that are coyly borrowed from the progressive left. One of the more dismaying features of last year’s election was the extent to which “white working class” became a catchall identity for people whose travails we were supposed to pity but whose habits or beliefs we were not supposed to criticize. The result was to give the Trump base a moral pass it did little to earn.
* * *
So here’s where we stand: Intelligent disagreement is the lifeblood of any thriving society. Yet we in the United States are raising a younger generation who have never been taught either the how or the why of disagreement, and who seem to think that free speech is a one-way right: Namely, their right to disinvite, shout down or abuse anyone they dislike, lest they run the risk of listening to that person — or even allowing someone else to listen. The results are evident in the parlous state of our universities, and the frayed edges of our democracies.
Can we do better?
This is supposed to be a lecture on the media, and I’d like to conclude this talk with a word about the role that editors and especially publishers can play in ways that might improve the state of public discussion rather than just reflect and accelerate its decline.
I began this talk by noting that Americans have rarely disagreed so vehemently about so much. On second thought, this isn’t the whole truth.
Yes, we disagree constantly. But what makes our disagreements so toxic is that we refuse to make eye contact with our opponents, or try to see things as they might, or find some middle ground.
Instead, we fight each other from the safe distance of our separate islands of ideology and identity and listen intently to echoes of ourselves. We take exaggerated and histrionic offense to whatever is said about us. We banish entire lines of thought and attempt to excommunicate all manner of people — your humble speaker included — without giving them so much as a cursory hearing.
The crucial prerequisite of intelligent disagreement — namely: shut up; listen up; pause and reconsider; and only then speak — is absent.
Perhaps the reason for this is that we have few obvious models for disagreeing well, and those we do have — such as the Intelligence Squared debates in New York and London or Fareed Zakaria’s show on CNN — cater to a sliver of elite tastes, like classical music.
Fox News and other partisan networks have demonstrated that the quickest route to huge profitability is to serve up a steady diet of high-carb, low-protein populist pap. Reasoned disagreement of the kind that could serve democracy well fails the market test. Those of us who otherwise believe in the virtues of unfettered capitalism should bear that fact in mind.
I do not believe the answer, at least in the U.S., lies in heavier investment in publicly sponsored television along the lines of the BBC. It too, suffers, from its own form of ideological conformism and journalistic groupthink, immunized from criticism due to its indifference to competition.
Nor do I believe the answer lies in a return to what in America used to be called the “Fairness Doctrine,” mandating equal time for different points of view. Free speech must ultimately be free, whether or not it’s fair.
But I do think there’s such a thing as private ownership in the public interest, and of fiduciary duties not only to shareholders but also to citizens. Journalism is not just any other business, like trucking or food services. Nations can have lousy food and exemplary government, as Great Britain demonstrated for most of the last century. They can also have great food and lousy government, as France has always demonstrated.
But no country can have good government, or a healthy public square, without high-quality journalism — journalism that can distinguish a fact from a belief and again from an opinion; that understands that the purpose of opinion isn’t to depart from facts but to use them as a bridge to a larger idea called “truth”; and that appreciates that truth is a large enough destination that, like Manhattan, it can be reached by many bridges of radically different designs. In other words, journalism that is grounded in facts while abounding in disagreements.
I believe it is still possible — and all the more necessary — for journalism to perform these functions, especially as the other institutions that were meant to do so have fallen short. But that requires proprietors and publishers who understand that their role ought not to be to push a party line, or be a slave to Google hits and Facebook ads, or provide a titillating kind of news entertainment, or help out a president or prime minister who they favor or who’s in trouble.
Their role is to clarify the terms of debate by championing aggressive and objective news reporting, and improve the quality of debate with commentary that opens minds and challenges assumptions rather than merely confirming them.
L’analfabetismo funzionale è l’incapacità “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità” (OCSE).
In Italia, 8 persone su 10 hanno difficoltà a utilizzare quello che ricavano da un testo scritto, 7 persone su 10 hanno difficoltà abbastanza gravi nella sua comprensione: 5 milioni di italiani hanno una completa incapacità di lettura (Tullio De Mauro).
Il tema, come molti altri relativi al declino dell’informazione, sono affrontati da un breve, ma intenso libro di Paolo Pagliaro (coautore con Lilly Gruber della trasmissione 8 e 1/2) dal titolo “Punto – fermiamo il declino dell’informazione”, edito da il Mulino.
L’attuale dibattito sui vaccini, come quello su ogni problema sociale complesso, rende urgente la risposta alla domanda: che cosa fare quando non si ha la competenza?
Adriano Sofri, su Il Foglio del 14 agosto 2004, ha tentato di dare una risposta a questa domanda.
“Ci sono due strade. Farsi una competenza, e su quella fondare una propria opinione non capricciosa. Oppure affidarsi prudentemente alla competenza altrui, e su quella fondare la propria cauta opinione”.
Stamane, su Radio24, Alessandro Milan e Oscar Giannino, solitamente prudenti e cauti, sono caduti nella trappola di un antivax veneto travestito da filosofo del diritto che ha dibattuto sulla libertà individuale, sparando comunque, senza essere minimamente contrastato, una serie di dati e informazioni volutamente sbagliate sulle coperture vaccinali, sugli interventi in corso di epidemie, ecc.
La mia reazione è stata che il linguaggio usato da Sofri nel 2004 è troppo aulico!
Meglio questo diagramma di flusso!
Sono certo che l’applicazione diffusa di questo diagramma è una pia illusione! Mi pare che viviamo in un periodo in cui chi urla di più impone le sue idiozie. Mao Tse Tung diceva: “Augura al tuo peggior nemico di vivere in tempi interessanti”! Il nostro è sicuramente un tempo interessante. O no?
Tempo fa, sui social, Roberta Zantedeschiche si occupa di ricerca e selezione di personale e diformazione e orientamento professionale, ha pubblicato un interessante post su come stendere un CV efficace prendendo Leonardo da Vinci come testimonial.
Eccolo: interessante!
Quel gran secchione di Leonardo Da Vinci tra le varie cose è fautore pure del CV efficace.
Quel CV cioè che non descrive ogni singola esperienza lavorativa (quello che hai fatto in passato) ma che mette in evidenza le capacità maturate (ciò che potrai fare presso chi ti assumerà).
Un CV non autoreferenziale ma concreto, pragmatico e rivolto ai bisogni e ai problemi di chi legge.
La lettera è indirizzata al Duca Ludovico Sforza detto Il Moro in occasione del trasferimento dello stesso Leonardo a Milano e pare proprio una moderna domanda di assunzione.
Eccola tradotta in Italiano corrente:
Avendo constatato che tutti quelli che affermano di essere inventori di strumenti bellici innovativi in realtà non hanno creato niente di nuovo, rivelerò a Vostra Eccellenza i miei segreti in questo campo, e li metterò in pratica quando sarà necessario. Le cose che sono in grado di fare sono elencate, anche se brevemente, qui di seguito (ma sono capace di fare molto di più, a seconda delle esigenze):
1- Sono in grado di creare ponti, robusti ma maneggevoli, sia per attaccare i nemici che per sfuggirgli; e ponti da usare in battaglia, in grado di resistere al fuoco, facili da montare e smontare; e so come bruciare quelli dei nemici.
2- In caso di assedio, so come eliminare l’acqua dei fossati e so creare macchine d’assedio adatte a questo scopo.
3- Se, sempre in caso di assedio, la fortezza fosse inattaccabile dalle normali bombarde, sono in grado di sbriciolare ogni fortificazione, anche la più resistente.
4- Ho ideato bombarde molto maneggevoli che lanciano proiettili a somiglianza di una tempesta, in modo da creare spavento e confusione nel nemico.
5- Sono in grado di ideare e creare, in modo poco rumoroso, percorsi sotterranei per raggiungere un determinato luogo, anche passando al di sotto di fossati e fiumi.
6- Costruirò carri coperti, sicuri, inattaccabili e dotati di artiglierie, che riusciranno a rompere le fila nemiche, aprendo la strada alle fanterie, che avanzeranno facilmente e senza ostacoli.
7- Se c’è bisogno costruirò bombarde, mortai e passavolanti [per lanciare sassi e ‘proiettili’] belli e funzionali, rielaborati in modo nuovo.
8- Se non basteranno le bombarde, farò catapulte, mangani, baliste [macchine per lanciare pietre e ‘fuochi’] e altre efficaci macchine da guerra, ancora in modo innovativo; costruirò, in base alla situazione, infiniti mezzi di offesa e difesa.
9- In caso di battaglia sul mare, conosco efficaci strumenti di difesa e di offesa, e so fare navi che sanno resistere a ogni tipo di attacco.
10- In tempo di pace, sono in grado di soddisfare ogni richiesta nel campo dell’architettura, nell’edilizia pubblica e privata e nel progettare opere di canalizzazione delle acque. So realizzare opere scultoree in marmo, bronzo e terracotta, e opere pittoriche di qualsiasi tipo. Potrò eseguire il monumento equestre in bronzo che in eterno celebrerà la memoria di Vostro padre [Francesco] e della nobile casata degli Sforza.
Se le cose che ho promesso di fare sembrano impossibili e irrealizzabili, sono disposto a fornirne una sperimentazione in qualunque luogo voglia Vostra Eccellenza, a cui umilmente mi raccomando.
Che cosa fa Leonardo?
Per prima cosa sintetizza le sue competenze in un elenco numerato, così facendo facilita l’organizzazione dei contenuti e la lettura da parte di chi riceve la missiva.
Inoltre, e ancora più importante, contestualizza la lettera citando soprattutto le sue competenze in ambito bellico. Lui, che era prima di tutto un artista e pure pacifista, scrive un CV promuovendo una gamma ben specifica di abilità, quelle che ritiene possano servire al Duca. Delle sue qualità di artista ne accenna solo al decimo punto, senza forzare la mano.
Da Vinci docet quindi, il CV moderno l’ha inventato lui, e non ha niente a che fare con il formato europeo.
È invece un CV lean, contestualizzato, funzionale, che punta dritto all’obiettivo facendo leva sui bisogni di chi dovrebbe ingaggiarlo. Funziona così anche oggi: chi assume lo fa perché ha un problema e sceglie la persona che ritiene possa risolverlo nel migliore dei modi.
Quando scrivete un CV chiedetevi sempre: che problemi ha il mio interlocutore? In che modo io posso contribuire a risolverli? E poi scrivete di questo! Tutto il resto che vi verrà voglia di inserire nel CV potrebbe essere inutile, pensateci bene prima di occupare spazio con parole e informazioni che non portano valore aggiunto.
E strutturate il testo perché sia immediato e fluido, gli elenchi puntati sono i vostri migliori alleati.