Archivi del mese: febbraio 2020

Sprechi in sanità: considerazioni di Oscar Bertetto

In molti settori della nostra società si parla di sprechi, compresa naturalmente la sanità. Credo però che sia riduttivo interpretare gli sprechi solo in senso economico con una visione tutta finanziaria soprattutto se limitata ai singoli esercizi annuali di bilancio. Alcuni investimenti richiedono infatti tempo per dimostrare di essere produttivi; pensiamo agli interventi in ambito preventivo che richiedono un costo iniziale ma sicuramente portano col tempo risparmi nel costo delle cure, al di là dei vantaggi in termini di qualità della vita per i pazienti. Diagnosticare un tumore in fase iniziale rispetto a fasi più avanzate comporta trattamenti molto meno costosi e meno invalidanti e rischiosi per il malato. Anche non essere determinati nelle decisioni, chiari nelle scelte operative, precisi e coordinati nelle procedure costituiscono sprechi. Così come lo è ogni ritardo, riinvio, duplicazione di prestazioni, incertezza nelle scelte. Può diventare uno spreco in sanità anche il non ascolto dei pazienti perché le loro parole potrebbero guidarci con maggiore sicurezza e rapidità verso una corretta diagnosi e le successive terapie. Spesso i malati sono ottimi consiglieri, aiutano a non compiere errori, ci trasmettono con lucidità osservazioni importanti e questo porta a un migliore utilizzo delle risorse, a una reciproca fiducia che migliora l’aderenza alle terapie, a una minore prescrizione di esami spesso poco utili e a un risparmio sul consumo di farmaci. Molti passaggi burocratici, la necessità di richieste e la compilazione di documentii non sempre motivate sono altrettanti sprechi soprattutto quando sono incombenze attribuite a personale altamente qualificato che viene così distolto da quella che dovrebbe essere la sua attività prioritaria. Potrei continuare con molti esempi che vanno dai ritardi nella introduzione dell’informatica alla farraginosa e lenta conduzione degli appalti, dalla mancanza di reali controlli su indicatori di appropriatezza sostituiti da formali verifiche prive di efficacia nell’indurre veri cambiamenti vituosi, ma é sabato sera e credo dobbiate concedervi una serena serata.

La nuova lotta di classe di Lorenzo Castellani

Interessantissima analisi di Lorenzo Castellani e utili consigli di lettura!
Da News List di Mario Sechi http://bit.ly/2vzamAn

La nuova lotta di classe

Lavoro, capitale, politica. Il libro di Michael Lind, “The New Class War”, sul conflitto della contemporaneità. Una divisione prima di tutto geografica tra le aree urbane e le Vandee delle periferie. Un’indagine di Lorenzo Castellani sulla tecnocrazia e il populismo

di Lorenzo Castellani

È tornata la lotta di classe. Su List lo abbiamo scritto spesso, e non tanto in termini marxisti e materialisti quanto come scontro politico tra gruppi diversi, sul piano socio-culturale, all’interno degli Stati nazionali. E’ una tesi che inizia a farsi largo anche a livello internazionale. L’ultimo magistrale libro di Michael Lind, intitolatoThe New Class War, descrive precisamente ciò che ci troviamo davanti e rifiutiamo di vedere.

La tesi di Lind è semplice e potente: siamo nella mani di una élite tecnocratica, che vive asserragliata nelle sue enclave, fuori c’è una classe media e operaia (l’autore non ha paura di usare working class per raggruppare tutti coloro che sono fuori dal giro dell’establishment, vivono in realtà periferiche e territorializzate) sempre più disorientata ed incattivita.

La divisione, per Lind, è prima di tutto geografica. I tecnocrati, termine usato qui genericamente per indicare tutti coloro che hanno elevate competenze certificate da un sistema universitario internazionale sempre più oneroso, vivono negli hubs, le grandi aree urbane dove si concentrano finanza, multinazionali, tecnologia, media, servizi di consulenza. Gli stessi si descrivono come “creativi”, “competenti”, “élite digitale”, “brain hubs”, “thinkepreneur”, “smart”.

Dall’altro lato, appena fuori le metropoli oppure dispersa per le varie Vandee del mondo, c’è la working class. Sono coloro che sono ancorati al modello “tradizionale”, nella terminologia delle élite progressiste, che vivono nelle province e nelle periferie, che credono nella famiglia tradizionale, nella proprietà immobiliare, usano l’auto e coltivano miti nazional-popolari e strapaesani. Non sono necessariamente “i poveri”, perché un imprenditore di provincia o un artigiano guadagnano spesso molto di più di un giornalista patinato, ma diversa è la loro cultura.

La working class nazionale, inoltre, è costretta a mescolarsi con i nuovi arrivati, gli immigrati. Dinamica sociale che alimenta la paure dei residenti, ma che tarpa anche le ali ai nuovi arrivati segregandoli nelle periferie e spingendoli a lavorare come manodopera a basso prezzo (badanti, colf, giardinieri ecc). Di fatti, per i nati fuori dall’énclave tecnocratica la strada per raggiungere gli hubs è lunga e accidentata, sostiene Lind, checché ne dicano gli apostoli della meritocrazia. Sì perché la grande maggioranza di quelli che entrano a far parte dei tecnocratici parte avvantaggiata: figli di genitori laureati e/o con una condizione economica superiore alla media. Insomma, il sistema premia il merito, ma solo se ci sono determinate condizioni di partenza e se l’individuo è disposto a sposare i valori dell’establishment fatti di identità blande, diritti individuali, ecologismo, mobilità lavorativa.

Grazie a questa chiusura ermetica, l’ideologia della classe tecnocratica è un’ipocrita sintesi tra individualismo assoluto e disciplinamento autoritario. L’individuo deve (non può) essere libero da ogni legame famigliare, geografico, sociale della tradizione. Il meritevole deve farsi tecnocrate globale, pluralista, aperto alla diversità di genere ed etnia, ecologico, aperto. Al tempo stesso, però, le uniche idee accettabili sono quelle della stessa classe tecnocratica. Tutto il resto, che resta fuori, è populismo, fascismo, bigottismo, analfabetismo funzionale. Il vecchio mondo borghese in cui la famiglia, il patrimonio, la comunità erano valori deve essere spazzato via. Seppellito insieme ai suoi status symbol come la proprietà immobiliari, il cibo troppo calorico e le auto.

Scrive Lind che c’è “una nuova ortodossia della competente classe manageriale, i cui membri dominano simultaneamente le burocrazie, le assemblee societarie, le università, le fondazioni e i media del mondo occidentale.” E “il suo modello economico si basa su tasse, regolamentazioni, arbitrati e mercato del lavoro globali, che indeboliscono sia la democrazia degli stati nazionali che la maggioranza della classe operaia nazionale.

Il suo modello preferito di governo è apolitico, non maggioritario, elitista, tecnocratico.” Una élite che, come descritta da Jonah Goldberg in Miracolo e suicidio dell’Occidente, altro libro prezioso appena pubblicato in Italia da LiberiLibri, assume caratteri anti-concorrenziali, burocratici, anti-comunitari e centralizzatori. Ha la smania, in sostanza, di gestire tutto dal centro e di correggere tutto attraverso lo Stato, le istituzioni sovranazionali ed i tribunali, esponendosi a pericolosi fallimenti per la naturale fallacia in cui incorre chi pretende il controllo totale sulla società.

E da qui, tornando a Lind, la lotta di classe. Perché i territorializzati, minacciati dalle dinamiche dell’economia globale e dall’immigrazione, ricorrono all’unica arma possibile nel mondo occidentale: il voto. Un movimento elettorale di reazione, quello che ha scosso i regimi democratici degli ultimi dieci anni.

Entrano in gioco, a questo punto, i populisti. Per Lind il populismo è una reazione, una resistenza alla vittoria completa della classe tecnocratica, che ha maggiori risorse e potere ma numeri inferiori alla classe periferica. I populisti hanno cambiato coordinate alla politica. Il centrismo vincente degli anni novanta, quello dei Blair, dei Clinton, dei Bush, dei Berlusconi si basava su idee economiche liberali (centrodestra) e su un approccio etico aperto (progressista o, quantomeno, non tradizionalista). Quello dei populisti è l’esatto contrario, per questo è scomparso il centro ed i tecnocratici continuano a non volerlo comprendere, si basa su idee economiche di sinistra (Stato sociale) e su posizioni etiche di destra (tradizionaliste). In cui il collante più forte è l’opposizione alla classe tecnocratica e progressista che, nel frattempo, si è avvantaggiata della globalizzazione economica ed istituzionale occupando gran parte dei posti di potere nel mercato e nelle istituzioni non-maggioritarie. Qual è il problema del populismo? Lind non è tenero: i movimenti populisti reagiscono, protestano, frenano, ma non governano. Se e quando governano, faticano a costruire una propria élite, un contro-establishment capace di ricondurre alla ragionevolezza la classe tecnocratica, tenere unita la società, trovare un accordo tra le due classi. È per questo che la politica occidentale rischia di andare a rotoli, perché nessuno riesce a costruire un New Deal. Troppo sprovveduti i populisti, troppo cieca e sfacciata la classe tecnocratica. I due mondi non si connettono, nessuno coglie la raffinatezza del buon viso a cattivo gioco e della mediazione. E scrive Lind, fornendo una potente suggestione, che il rischio è quello della deriva sudamericana in cui oligarchie oppressive provocano cicliche e distruttive reazioni populiste. È il tecnopopulismo, regime in cui le due anime, le due classi, convivono nel rischio dell’autodistruzione. Quanto manca al collasso del sistema? Non lo sappiamo, ma come ammoniva George Orwell nei regimi tecnocratici vi è sempre il rischio “di una società gerarchica, con in cima una aristocrazia della competenza e in basso una massa di semi-schiavi”.

Dove finisce il ragionamento di Lind? Come si guarisce dalla malattia? L’intellettuale americano sfocia in quello che potremmo chiamare neo-corporativismo, e che Lind chiama pluralismo democratico. Non si tratta di rievocare il corporativismo fascista, esperimento nella pratica di poco successo perché effettuato in una cornice statalista, autoritaria e dominata dal partito unico, ma di una tradizione che parte dal sociologo Durkheim e s’integra con i pensatori federalisti, come Thomas Jefferson. L’unico modo per trovare un patto tra le due classi è fornire gli strumenti per cui possa avvenire una trattativa: rivivificare i sindacati, ri-territorializzare la politica, addomesticare il capitalismo. Fondare la società su un ordine tripartito: lavoro, capitale, politica. Che dovranno tornare a cooperare all’interno di nuovi ordini camerali e territoriali. La working class, ben più numerosa e diffusa dei tecnocrati, deve utilizzare questi strumenti per far valere il proprio potere. Un maggiore controllo sulla politica, sulla finanza pubblica, sul commercio, sull’immigrazione ed un rapporto più stretto con il mondo economico-finanziario sono gli antidoti al tecno-populismo, all’oligarchia demagogica in cui rischiamo di precipitare. In questo processo la maturazione dei movimenti nazional-populisti è fondamentale, il passaggio dalla reazione alla progettazione di un nuovo ordine è essenziale. Ma anche nelle élite tecnocratiche servono pontieri che possano favorire questi processi federativi e spingere affinché si rafforzi il controllo dal basso del potere. Per molti aspetti questo ragionamento coincide con quello di Joshua Goldberg, che parte da posizioni più conservatrici ma alla fine ci riconduce nel suo libro alla necessità di riscoprire e difendere lo spirito originario dell’Occidente. Un approccio che aveva trovato spazio anche nelle riflessioni di importanti, ma spesso fuori dal coro del conformismo, pensatori italiani come Gianfranco Miglio e Geminello Alvi.

La diagnosi della malattia della nostra società è ormai accurata. Riusciranno vecchie e nuove élite a forgiare un nuovo patto? O siamo forse destinati a dividerci tra le due disastrose derive, quella orwelliana e quella sudamericana?