“Il cronista osserva una data sul taccuino: domenica 22 ottobre. È il giorno in cui Lombardia e Veneto apriranno i seggi per il voto consultivo sull’autonomia regionale. Sedici milioni di elettori, le due regioni che trainano il sistema produttivo italiano, un appuntamento che è chiaramente un altro passaggio di quello scenario di crisi istituzionale che Miglio aveva chiaramente dipinto nei suoi libri e nelle sue riflessioni. I benpensanti e quelli che tanto tutto passa dicono: “Non succederà niente”. No, cari, non è così, la doppia consultazione avrà invece un impatto politico enorme, quando il popolo vota succede sempre qualcosa. Proviamo a spacchettare lo scenario, seguite il titolare di List.
Voto doppio, un solo giorno. La notte del 22 ottobre apparirà chiaro che Lombardia e Veneto vivono in una dimensione diversa dal resto del paese. Il Nord farà una scelta per il Nord. È incredibile come questo aspetto sfugga ai più. Gli elettori non andranno alle urne “solo” per chiedere più autonomia (e parliamo già di una cosa che avrà conseguenze importanti), ma si sveglieranno la mattina con la convinzione e volontà di andare a dire che tra il Nord e il Sud la distanza è grande e la misura è colma.
Non succederà niente? È una pia illusione. Non ci vuole l’immaginazione di Salvador Dalì per vedere la scena: vince il sì in maniera schiacciante, dichiarazioni su tutte le televisioni in contemporanea dei due presidenti, Maroni e Zaia, trionfo della Lega (che ben governa le due regioni, sia detto chiaramente), Salvini carico a pallettoni scartavetra la sua dichiarazione sul “popolo del Nord”, Forza Italia partecipa alla festa, il Pd si ritrova all’angolo con l’apertura ufficiale della Questione Settentrionale dopo decenni di zero tituli sulla Questione Meridionale. Sarà uno tsunami della comunicazione. E la comunicazione è politica.
Il 22 ottobre si aprirà ufficialmente la Questione settentrionale che Umberto Bossi aveva individuato con grande chiarezza nei primi anni Novanta. È una parabola politica che continua perché le intuizioni e analisi fatte in quel tempo dal Senatur e da Miglio erano corrette e sono non solo ancora in piedi, ma si presentano in forma sempre più grave. Cosa diceva Bossi? Il titolare di List tira fuori dalla sua libreria un discorso parlamentare del 1993, un gioiellino se lo confrontiamo con quello che passa oggi il Parlamento. I referendum promossi da Mario Segni e dai Radicali (eccolo, il voto) hanno avuto un esito travolgente (il segnale politico) e il presidente del Consiglio Giuliano Amato presenta le sue dimissioni. Il paese è in piena emergenza, si prepara l’arrivo del governo di Carlo Azeglio Ciampi. Camera dei Deputati, 22 aprile 1993, seduta pomeridiana, presidenza di Giorgio Napolitano, prende la parola Umberto Bossi:
“Non voglio insistere sul fatto che il federalismo fu l’anima del nostro Risorgimento. A tutti coloro che in malafede combattono l’autonomia regionale pur dichiarandosi a parole favorevoli, rammenterò le dichiarazioni di Salvemini, che non era lombardo: se non sbaglio era nato a Molfetta, in Puglia. «Oggi l’intervento del Governo centrale» — sono parole di Salvemini — «è sempre a vantaggio dei più forti, cioè di quelli che dispongono di maggior numero di voti alla Camera e di un regime unitario. Il Governo centrale non potrebbe fare diversamente, per non rimanere in minoranza nelle votazioni di fiducia. In un regime federale, invece, qualora le lotte fra i partiti di una regione degenerassero in modo da richiedere l’intervento delle altre regioni, di qualunque colore siano, non avendo interessi diretti nelle lotte altrui ed essendo interessati a ristablire saldamente l’ordine turbato, deciderebbero secondo giustizia e darebbero a ciascuna il suo». Non basta, incalza Salvemini, che l’idea federalista venga affermata nelle pagine di un libro; bisogna che diventi programma politico dei partiti democratici. Il federalismo è economicamente utile alle masse del sud, politicamente utile ai democratici del nord, moralmente utile a tutta l’Italia”.
Interessante. E sorprendentemente “colto” e attuale. Ora fate il giochino di immaginare quali saranno le parole di Maroni, Zaia e Salvini alla vista dell’esito del referendum. Il passaggio del 22 ottobre non sarà una scampagnata nella festa popolare del voto, ma l’accelerazione di un processo di crisi che non ha avuto una risposta negli ultimi trent’anni”.
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