Seconda “puntata” dell’interessante analisi di Vitalba Azzolini: la tecnica e la politica non si incrociano e la misurazione è un’opinione … tutto conduce alla creazione all’italiana del suddito inconsapevole.
La List di Mario Sechi si arricchisce www.newslist.it
In una “puntata” precedente (https://carlofavaretti.wordpress.com/2017/09/17/fatto-analisi-impatto-di-vitalbaa-su-newslist-it-di-masechi-da-leggere/) qui su List ho provato a spiegare la “cultura” degli impatti: vale a dire quel metodo di regolamentazione che impone al governo e ad altre autorità di definire con trasparenza gli obiettivi perseguiti, di valutare ex ante comparativamente gli effetti di diverse opzioni normative (inclusa quella di non intervento), di fissare indicatori di risultato per vagliare ex post se quella prescelta è stata efficace, nonché di redigere un’apposita relazione con tali contenuti. Non è solo un metodo di better regulation, ma anche il modo per inchiodare i governanti alle responsabilità conseguenti ai propri annunci, vincolandoli a rendicontarne i risultati. Sarà per questo che AIR e VIR (analisi e verifica di impatto della regolamentazione) piacciono poco a politici e supporter, nonostante siano obbligatorie ex lege da anni. Detto ciò, può essere utile esporre i settori in cui l’analisi va fatta, verificando se e come “funzioni”: insomma, una verifica di impatto sull’analisi di impatto, e non è un gioco di parole.
Ai sensi di legge, la valutazione ex ante degli impatti va svolta secondo direttrici ben precise: se la futura normativa ha fra i suoi destinatari piccole e medie imprese, ne vanno analizzati gli eventuali effetti distorsivi o sproporzionati rispetto alle imprese di più grandi dimensioni; inoltre, devono essere misurati eventuali nuovi adempimenti a carico di cittadini e imprese; serve altresì stimare l’incidenza delle diverse opzioni di regolazione sulle dinamiche concorrenziali del mercato, scegliendo quella che le sacrifica meno; in caso di recepimento di normative comunitarie, occorre verificare che non siano introdotti obblighi superiori a quelli richiesti da tali normative (c.d. gold-plating). E’ importante poi valutare preventivamente anche le modalità attuative – strumenti, risorse e mezzi – dell’intervento di regolamentazione. Questo è quanto espressamente (e teoricamente) prescritto. Ma i legislatori ne tengono realmente conto?
Partiamo dal primo punto. È’ necessario esaminare che nuove disposizioni non impongano pesi burocratici gravanti in misura maggiore sulle piccole e medie imprese, poiché “l’evidenza empirica mostra in modo inequivocabile come gli oneri (…) legati all’adempimento di una norma siano, in proporzione, molto più elevati per le PMI rispetto alle imprese di taglia media e grande” (Formez PA). Al riguardo, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato osserva che “il cammino intrapreso verso l’adozione di regolazioni che ‘pensano in piccolo’ potrà produrre risultati positivi per (…) le piccole e medie imprese, a condizione che i modelli di analisi d’impatto vengano attuati in modo concreto e sostanziale”. E, infatti, l’UE ha predisposto da tempo un test (c.d. test PMI) utile a stimare gli impatti – appunto – degli adempimenti amministrativi sulle imprese di dimensioni minori. Ma di questo test non sembra esservi traccia nelle relazioni AIR nazionali. Le conseguenze sono palesi: un recente studio di Assolombarda in tema di oneri amministrativi nei settori ambiente, edilizia, fisco ecc. dimostra che i costi delle relative procedure (in termini di percentuale sul fatturato e di ore per addetto) continuano a incidere più sulle PMI che sulle grandi imprese. E di studi che attestano queste evidenze ve ne sono comunque molti altri.
Circa il secondo punto, cioè la stima – in sede di elaborazione di nuove normative – degli oneri burocratici gravanti su cittadini e imprese (con quantificazione dei relativi costi), essa è funzionale al c.d. budget regolatorio, previsto ex lege dal 2012. Si tratta di un meccanismo di compensazione c.d. one-in-one-out, per cui non possono essere introdotti nuovi oneri amministrativi senza contestualmente ridurne o eliminarne altri. Questo principio viene osservato? La risposta la fornisce il Consiglio di Stato, il quale pochi mesi fa ha rilevato che, mentre in altri Paesi si stanno sfoltendo molti pesi, elaborando sistemi one-in-two-out o addirittura one-in-three-out, la regola in Italia è pressoché ignorata. Rimando a quanto ho scritto altrove, aggiungendo che, nonostante recenti misure tese a semplificazioni varie, permane “una grave incertezza sul regime amministrativo delle singole attività, sulla stabilità dei titoli abilitativi (impliciti o presunti), sui tempi di definizione delle procedure” (C. Deodato), nonché su molto altro.
Il terzo punto è il full competition assessment, cioè la quantificazione degli impatti concorrenziali, utile a evitare ostacoli ingiustificati all’esercizio delle attività economiche: ma chi l’ha visto? E’ lo stesso Nucleo AIR presso la presidenza del Consiglio ad attestarlo: in sede di elaborazione di nuove regolamentazioni, ci si limita a svolgere “considerazioni apodittiche sull’intervento come ausilio alla competitività e nessuna considerazione specifica laddove l’intervento limiti o distorca il mercato”. Serve altro per dimostrare il senso (mancante) dei regolatori nazionali per la competizione fra privati? Forse sì: ad esempio, ricordare il non lusinghiero 54° posto che l’Italia occupa attualmente nell’Indice Libertà Economiche elaborato dal Fraser Institute (era al 24° posto nel 2000); o la circostanza che per partorire la prima (rachitica) normativa sulla concorrenza sono serviti 8 anni dalla legge istitutiva e circa 900 giorni di discussione.
Per quanto poi attiene al divieto di gold-plating, nelle relazioni AIR i regolatori dovrebbero dare conto del fatto che, nella trasposizione di discipline comunitarie nell’ordinamento interno, non hanno immotivatamente previsto oneri, requisiti, procedure ecc. più gravosi di quelli contenuti nelle discipline medesime. Questo limite viene rispettato? I dati empirici sono chiari: “il 32% (o 3,5% del PIL) dei costi amministrativi di provenienza europea a carico di un’impresa sono da ascriversi, per la stessa Commissione, all’inefficace recepimento del diritto europeo negli Stati membri, e il 4% di essi al solo gold-plating” (E. Ojetti). Inoltre, basta leggere qualche relazione di analisi di impatto nazionale per accertare che non viene fatto un esame attento e puntuale sul gold-plating e che, pertanto, il rischio di violazione è molto alto.
Infine, non mi dilungherò sulla valutazione di strumenti e modalità di implementazione di nuove discipline, rimandando a quanto scritto altrove: in sintesi, come può pensarsi che qualcuno la svolga ex ante, se in Italia non esiste un’autorità preposta a verificare ex post l’effettiva attuazione di “politiche” e relative normative? Né mi dilungherò su analisi di impatto riguardanti profili quali il genere, la salute ecc., svolte in altri Paesi: a cosa servirebbe, se nel nostro le AIR non affrontano neanche quei pochi profili già previsti? A questo punto concludo. Le domande retoriche stanno diventando un po’ troppe.